Alla base della normalizzazione delle relazioni tra Turchia ed Israele c’e’ anche un possibile gasdotto che veicoli il gas israeliano verso la penisola anatolica.
Un gasdotto che veicoli il gas del maxi-giacimento israeliano Leviathan verso la penisola anatolica potrebbe essere alla base dell’improvviso processo di normalizzazione delle relazioni tra Turchia ed Israele apertosi venerdì 22 marzo, quando il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha rivolto al popolo turco le scuse ufficiali per l’incidente della Freedom Flotilla del maggio 2010.
Un riavvicinamento inatteso, voluto e mediato dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama, che giunge in un momento altamente strategico in cui Israele deve decidere sulle vie e le modalità d’esportazione dal più grande giacimento metanifero mai scoperto nel Mediterraneo, il Leviathan. L’ipotesi di un gasdotto, trapelata il mese scorso e per ora solo in fase di studio, rappresenta infatti una più che allettante suggestione dalle importanti implicazioni sia economiche sia politiche per entrambi i paesi. E sarebbe tra le principali ragioni della repentina riconciliazione tra due potenze i cui rapporti diplomatici erano ormai da tempo ai minimi storici.
Tensioni
Turchia e Israele erano ai ferri corti da quando, nel maggio 2010, nove cittadini turchi morirono per mano delle forze israeliane durante il tentativo della Freedom Flotilla di violare il blocco di Gaza. Un episodio per il quale la Turchia ha reclamato da subito scuse ufficiali, indennizzi alle famiglie delle vittime e la rimozione del blocco di Gaza. Richieste a lungo disattese che hanno spinto Ankara, nel settembre 2011, a declassare le relazioni diplomatiche con Israele, con l’espulsione del suo ambasciatore ed il richiamo in patria dell’omologo turco, nonché a sospendere la cooperazione militare, con il conseguente rafforzamento della presenza navale turca nel Mediterraneo.
Ma le relazioni tra i due paesi erano peggiorate già prima del 2010. La ricerca di maggiore proiezione internazionale da parte del governo turco di Recep Tayyip Erdoğan, in carica dal 2003, si era infatti già tradotta in una politica estera più aperta verso il mondo arabo, con ripercussioni negative sui rapporti con Tel Aviv. Ankara ha fatto leva, in particolare, sulla questione palestinese, sostenendo più volte a gran voce che Israele dovesse smantellare il proprio arsenale nucleare, rimuovere il blocco di Gaza e riconoscere la sovranità dello Stato palestinese.
Ciò nonostante, quella che sembrava un’insanabile frattura diplomatica è stata parzialmente ricomposta quando Benjamin Netanyahu, su invito del presidente Obama, si è finalmente scusato in via ufficiale con l’intero popolo turco.
Fame di energia
La Turchia necessita di abbondanti e sicuri approvvigionamenti energetici per alimentare la propria rampante crescita economica. Il consumo metanifero, che contribuisce per quasi la metà della generazione elettrica del paese, si è attestato nel 2011 a 44,2 miliardi di metri cubi (mld mc) salendo a 48,5 nel 2012. Una situazione di per sé non critica, se non fosse che la quasi totalità del gas consumato è di importazione. Un accesso diretto e privilegiato ai 480 mld mc di gas presenti nel maxi-giacimento Leviathan rappresenterebbe da questo punto di vista un’importante svolta strategica per la Turchia, fortemente impegnata nel perseguire tutte le possibili vie per ridurre i costi della dipendenza e mettere in sicurezza gli approvvigionamenti.
Il gas israeliano consentirebbe alla Turchia di accrescere la varietà dei fornitori e ridurre la dipendenza dalle importazioni più costose, in particolare quelle iraniane, rafforzando al contempo il proprio potere negoziale. La quasi totalità del fabbisogno metanifero turco è infatti attualmente soddisfatto da soli tre paesi: la Russia, con una quota del 55% del mercato ad un costo di 400 dollari per migliaia di metri cubi ($/Mmc); l’Iran, con il 25% ad un costo di 505$/Mmc; l’Azerbaigian, col 10% a 300$/Mmc. La diversificazione – per fonte e per fornitore – è un punto chiave della strategia turca e non a caso il ministro dell’Energia Taner Yildiz si è recentemente recato in Algeria, Libia e Qatar in cerca di nuovi accordi, alcuni conclusi con successo, mentre si guarda con interesse alle potenziali esportazioni provenienti dal Kurdistan dove opera l’anglo-turca Genel Energy.
Oltre alle positive implicazioni per il mercato interno, l’accesso al Leviathan consentirebbe alla Turchia di valorizzare il proprio ruolo di paese di transito. Un passo importante per divenire quell’hub energetico che il ministro degli affari esteri Ahmet Davutoğlu considera passaggio fondamentale per elevare lo status internazionale del paese. Geograficamente, la Turchia è infatti crocevia tra i mercati europei e le risorse presenti nel Caucaso e nel Centro Asia, in Iran, Iraq e, ora, Israele. Un differente sbocco del gas israeliano verso i mercati europei ostacolerebbe, invece, le ambizioni di Ankara di divenire corridoio energetico.
Dubbi di Israele
Non di minor conto sono gli interessi israeliani per una tale soluzione, che potrebbero aver spinto il primo ministro a porre le fatidiche scuse. Tel Aviv deve individuare in tempi brevi la modalità con cui intende esportare il gas dal giacimento per consentire l’avvio dei lavori e beneficiare della scoperta il prima possibile.
Se la scelta era inizialmente ricaduta su un terminale Gnl flottante offshore (viste le opposizioni ambientaliste e dei residenti a costruirlo sulla costa), tempi e costi potrebbero ora far propendere per la posa di un gasdotto sottomarino: il primo richiede infatti tra i 10 e i 20 miliardi di dollari per un arco lavorativo di 4-5 anni a fronte degli “appena” 2 miliardi in 2-3 anni del secondo.
Tempi e costi non sono però le uniche implicazioni rilevanti. Lo sono altrettanto le valutazioni circa i mercati di destinazione ed il grado di concorrenza ai due progetti. Terminali Gnl e gasdotti si differenziano principalmente per la maggiore flessibilità di scelta dei mercati d’esportazione consentita dal primo rispetto al secondo, che resta rigidamente vincolato alla tratta che percorre. Nel caso in questione, il gasdotto garantirebbe l’accesso privilegiato al mercato turco, che presenta elevati livelli di crescita, per poi contendersi un mercato maturo come quello europeo con il vincente tra il Trans Adriatic Pipeline (TAP) ed il Nabucco West, progetti concorrenti entrambi volti a trasportare il gas dell’Azerbaigian in Europa.
Per contro, un eventuale terminale Gnl si troverebbe ad affrontare, al di là del suo maggior costo, la concorrenza sia degli altri produttori di Gnl nei mercati d’esportazione che di progetti analoghi attualmente allo studio nel Bacino del Levante. Da una parte, infatti, i mercati d’esportazione del Gnl – circoscritti a quei paesi che possiedono le necessarie infrastrutture di rigassificazione – pur se in espansione soffrono di una già forte competizione, soprattutto da Qatar e Australia, che diventerà ancor più serrata con l’entrata sul mercato dei paesi dell’Africa orientale e degli Stati Uniti.
Dall’altra, oltre al progetto in questione, sono in fase di studio un terminale Gnl per le esportazioni dal giacimento Tamar (254 mld mc), il secondo grande giacimento israeliano, ed un altro per quelle dal giacimento Aphrodite (140-220 mld mc) che Cipro intende costruire a Vassilikos entro il 2019 indipendentemente da Israele. Che vi sia o meno spazio per tutti e tre i progetti è questione di non poco conto. Vale inoltre la pena sottolineare che, mentre l’ipotesi di accorpare i due progetti israeliani sia perseguibile, più difficile sia quella di un progetto congiunto Israele-Cipro, in ragione della volontà di Tel Aviv di avere il controllo diretto sulle entrate metanifere e di non prendere parte alla disputa tra Nicosia ed Ankara circa le attività di esplorazione al largo di Cipro.
Realpolitik
Se per Ankara la decisione di aderire a un progetto di gasdotto con Israele va valutata soprattutto in termini di costi/benefici sul piano della leadership regionale – a fronte di una convenienza economica e strategica praticamente certa – per Tel Aviv più numerose sono le variabili da tenere in considerazione. Oltre agli aspetti propri dei due progetti, Israele potrebbe voler valorizzare le implicazioni politiche che essi sottendono e scegliere come partner la Turchia per allentare l’isolamento nell’area a cui è stato relegato dopo la Primavera araba e la perdita di un importante alleato come l’Egitto.
Un’ipotesi che giustificherebbe e avvalorerebbe la mossa riconciliatrice di Netanyahu. Oppure, quella israeliana potrebbe rivelarsi una semplice tattica negoziale volta a mettere pressione alla Woodside, la compagnia petrolifera australiana che in dicembre ha raggiunto un accordo di massima per l’acquisizione del 30% del giacimento Leviathan – con una clausola sulla partecipazione della compagnia a qualsiasi progetto di Gnl legato al giacimento – e che è attesa per la firma definitiva entro la fine di questo trimestre.
Date le innumerevoli implicazioni positive sia economiche che politiche per entrambi i paesi, è ragionevole ritenere che un simile progetto infrastrutturale strategico possa aver giocato un qualche ruolo nel loro riavvicinamento. Quel che è certo è che un accordo metanifero tra Israele e Turchia andrebbe a consolidare ulteriormente il processo di normalizzazione in atto, a riprova di come la questione energetica, al pari e forse più di altre delicate questioni politiche, rappresenti un fattore chiave nella regione in grado di spostare – nel bene e nel male – gli equilibri geopolitici.
Roma, 9 aprile 2013, Nena News –
Filippo Clô* – AFFARI INTERNAZIONALI