Dott. Paolo Beccegato
Responsabile area internazionale di Caritas Italiana
(dal Convegno di Leuca 2012)
Si moltiplicano i rapporti e le analisi che denunciano il crescere del numero dei disastri, naturali e antropici, che causano vittime e danni sempre più ingenti, ad ogni latitudine e longitudine. Tra gli ultimi quello dell’Unione Europea sulle crisi dimenticate, denominato “Forgotten crisis assessment” che, utilizzando la metodologia “Global Needs Assessment”, ha monitorato nel 2012 ben 68 Paesi o territori dove attualmente sono in atto una o più situazioni di crisi umanitaria; un secondo documento dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR) ed altri ancora, provenienti soprattutto dal mondo delle ONG, hanno evidenziato inoltre che il lavoro delle agenzie umanitarie in questa fase storica viene messo a dura prova da una combinazione simultanea di nuovi e vecchi conflitti irrisolti che hanno causato livelli di crisi umanitarie mai raggiunte nella storia recente. Rapporti e analisi suffragate da innumerevoli testimonianze e storie, raccolte da operatori e volontari che dal posto non fanno che alzare la propria voce sulla gravità di tali drammi.
La crisi economica e finanziaria, infatti, associata ad una serie parallela di fenomeni e processi geo-politici internazionali e regionali, ha suscitato nel corso di questi ultimi anni dinamiche di instabilità sociali e istituzionali, tali da determinare la nascita di nuove situazioni di tensione e conflittualità armata. Le degenerazioni delle “primavere arabe”, sia nel Nord Africa, sia nel Medio Oriente, innestate originariamente dalle dinamiche di prezzo degli alimenti di base, la situazione in Mali e in tutta la fascia del Sahel, Niger e Nigeria comprese, si sono sommate alle tradizionali guerre, “croniche e infinite”, andando a configurare nel complesso un mondo sempre più violento e insicuro. I costruttori di pace, in un tale contesto, sono chiamati ad affrontare problemi sempre più complessi, ad analizzare il concatenarsi di fenomeni che paiono indipendenti, ma le cui interconnessioni sono da leggersi al di là delle apparenze.
Alcuni dati a livello “macro” parlano da sé: a partire dal 2006, il numero complessivo dei conflitti armati, che dopo la fine della Guerra Fredda era andato sostanzialmente diminuendo di anno in anno, è tornato di nuovo a crescere in modo repentino: nel 2011 sono state 20 le guerre ad alta intensità combattute nel mondo, in riferimento a 14 paesi. Ed è solo la punta dell’iceberg: nello stesso anno, il totale di tutte le situazioni di guerra e conflitto armato assommavano a 388 unità. Nel 2012 le statistiche mostrano un ulteriore peggioramento soprattutto in relazione alle crisi siriane e della striscia di Gaza e le tendenze per il 2013 non preannunciano nulla di buono.
Non sono sempre guerre di tipo tradizionale: la guerra sta evolvendo rapidamente e assume forme indefinite, latenti e mimetizzate che, oltre ad ostacolare l’assunzione di responsabilità della comunità internazionale, rendono oltremodo difficile l’intervento di pace, soprattutto nei cosiddetti “Stati fragili”, caratterizzati da strutture istituzionali che non possiedono la capacità (o la volontà politica) di provvedere alle funzioni fondamentali necessarie alla tutela della sicurezza e dei diritti umani delle proprie popolazioni. I protagonisti sono spesso un mix di truppe irregolari e forze speciali, hanno il volto di pick-up con mitragliatrice montata su un treppiede nel vano di carico, con attorno miliziani in abiti civili.
Nel corso degli ultimi anni, compreso quello in corso, uno dei principali fattori scatenanti le nuove situazioni di conflitto risiede nella difficoltà di molti stati nazionali a gestire l’impatto sociale della crisi economico-finanziaria, soprattutto sulle fasce sociali più deboli e indifese, tramite politiche di sostegno sociale e redistribuzione delle risorse. In molti contesti, mentre i governi nazionali hanno mostrato di non avere alcuna capacità o intenzione di intervento, anche a fronte del rialzo insopportabile dei prezzi degli alimenti, è aumentato il grado di vulnerabilità sociale e si sono deteriorate le condizioni materiali di vita di molti, portando alla fame milioni di persone.
Quando le crisi si trasformano in conflitti armati, gli individui e le famiglie non sono colpite solamente sotto il punto di vista economico: un aspetto importante da non trascurare, caratteristico delle nuove forme di violenza organizzata, risiede nel crescente coinvolgimento dei civili. La violenza prolungata in tante aree dimenticate del mondo ha portato il bilancio delle vittime civili a livelli insopportabili, in un contesto globale che, come accennato precedentemente, è aggravato da un numero di disastri naturali che è quasi raddoppiato in vent’anni e in cui la malnutrizione ha ripreso a crescere in modo preoccupante, superando ormai il miliardo di vittime.
A fronte di tali situazioni, caratterizzate da una crescente complessità, si registra una fase di grande debolezza politica delle istituzioni internazionali: le Nazioni Unite sembrano essere diventate sostanzialmente un’agenzia globale di aiuti, più che il forum politico universale che dovrebbe regolare le relazioni tra Paesi e garantire il rispetto del diritto internazionale. Pesano inoltre atteggiamenti e fenomeni di varia natura, che rappresentano poderosi ostacoli sulla strada di un futuro sostenibile per tutti: le politiche negazioniste rispetto al cambiamento climatico, il vuoto di progettualità e di azione politica da parte degli attori istituzionali, la strumentalizzazione dell’umanitario, la mancanza di investimenti sulla prevenzione, le politiche xenofobe sull’immigrazione, la debolezza degli strumenti di governance della finanza globale, la marginalizzazione del diritto internazionale, una concezione unilaterale della sicurezza, poco attenta alla prevenzione dei conflitti, ecc.
Di fronte a un tale scenario internazionale, a livello dell’opinione pubblica italiana, si rileva una sorta di assuefazione se non addirittura di disinteresse, favorito anche da media nostrani storicamente e strutturalmente deficitari sia in termini quantitativi sia qualitativi sui temi internazionali. Un sondaggio demoscopico recentemente somministrato ad un campione rappresentativo della popolazione italiana su atteggiamenti e conoscenze in tema di guerra e conflitti armati evidenzia, infatti, un sostanziale appiattimento del livello di sensibilità nella popolazione complessiva.
A tale riguardo appare urgente un’opera di educazione e informazione: i cambiamenti politici auspicati, necessari ad affrontare le sfide che abbiamo di fronte, richiedono come presupposto una diffusa presa di coscienza civile. E questo soprattutto nel momento in cui i problemi finanziari e dell’occupazione ci costringono a concentrare l’attenzione anche sui cortili di “casa nostra”. Certamente non manca la consapevolezza delle interconnessioni dei fenomeni, sia a livello europeo sia internazionale: questo favorisce anche la solidarietà e la richiesta di giustizia verso chi vive situazioni peggiori di quelle sperimentate nel nostro continente. E’ quanto emerge dal rapporto di ricerca “Mercati di guerra” curato da Caritas Italiana in collaborazione con Famiglia Cristiana e Il Regno, appena pubblicato, edito da Il Mulino, in cui si mette in evidenza che si tratta di una sfida in primo luogo culturale: far nascere una fase nuova nelle relazioni internazionali, sulla base di quel tipo di coscienza che, in alcune fasi della storia, appare ugualmente diffusa nell’opinione pubblica come pure nella comunità politica.
Un’idea di solidarietà umana, centrata sul fatto che la gente abbia diritto a non soffrire e che l’altro non è un’entità astratta, ma una persona reale. La consapevolezza dell’essere tutti, nessuno escluso, “responsabili di tutti”, per dirla con Giovanni Paolo II, con tutto il carico delle conseguenze dirette ed indirette che tale affermazione comporta: una nuova attenzione, un nuovo sguardo verso l’altro, portatore di quella dignità umana, troppo spesso offesa e maltrattata.