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Punto pace di Prato – Spade trasformate in aratri

Esperienze di riconversione industriale dal militare al civile

Il punto pace di Prato

È il tema dell’incontro promosso il 16 marzo  dal Punto Pace Pax Christi di Prato con alcune associazioni cittadine, nella sede della Provincia di Prato.

Consapevoli che solo  la nonviolenza e il disarmo sono le vie maestre per costruire e avviare percorsi di pace, la riflessione è partita dalla situazione mondiale attuale.

Relatore Gianni Alioti, già segretario FIN CISL, profondo conoscitore e protagonista di tante esperienze di riconversione industriale dal bellico al civile, a partire dalle grandi aziende liguri.

Il riferimento del titolo alla profezia di Isaia (“trasformeranno le loro spade in vomeri, non si eserciteranno più nell’arte della guerra”) indica a chiare lettere che con un grande coraggio etico, intelligenza e conoscenza dei sistemi produttivi e  volontà di politica industriale, la visione profetica non resta utopia ma trova declinazioni operative, pratiche e concrete.

E nel suo porsi come ipotesi di lavoro per la conversione delle fabbriche d’armi o, per via di contrasto, come efficace critica al militarismo e alla crescita delle spese militari, la profezia di Isaia c’incoraggia ad andare avanti… Anche, e soprattutto, quando sembra venire meno la speranza. Con l’industria bellica che vola in borsa grazie alle guerre e all’impennata della spesa pubblica degli Stati destinata alla produzione di armamenti (l’esempio del Gruppo Leonardo). Papa Francesco l’ha detto più volte senza mezzi termini: «[…] La crisi sociale ed economica è molto pesante, specialmente per i più poveri; malgrado questo – ed è scandaloso – non cessano i conflitti armati e si rafforzano gli arsenali militari. […] Io mi sono vergognato quando ho letto che un gruppo di Stati si sono compromessi a spendere il 2 per cento del PIL per l’acquisto di armi come risposta a questo che sta accadendo, pazzi!».

“Alla base di questa richiesta di riconversione nel civile delle fabbriche di armi, in una prospettiva di riduzione delle spese militari e di disarmo, ci sono essenzialmente ragioni di natura etica. Ma la storia ci dimostra che con il mutare degli scenari geopolitici e di mercato, da istanza etica la riconversione nel civile diventa un’esigenza di natura economica e industriale, anche al fine di tutelare meglio le prospettive occupazionali dei territori coinvolti. È quanto successo, ad esempio, dopo il secondo conflitto mondiale e alla fine della Guerra Fredda (ma non solo), dimostrando concretamente che la riconversione nel civile dell’industria militare è possibile. Negli Stati Uniti il 75% del settore automotive, convertito all’inizio della seconda guerra mondiale nella produzione di carri armati e veicoli blindati, nel dopoguerra tornò a fabbricare auto, bus, veicoli commerciali e industriali. Questa riconversione fu facilitata da una pianificazione rigorosa da parte del Governo e dell’industria. Una cosa simile si verificò nel settore aeronautico e nella cantieristica navale. In Italia in quegli anni il mercato nazionale degli armamenti era dominato da Ansaldo e Oto (Odero, Terni e Orlando). L’Ansaldo di Genova, negli anni del conflitto mondiale, aumentò la produzione di armamenti fino a coprire il 70 per cento della capacità produttiva. L’Ansaldo era l’unico costruttore di carri armati e forniva i due terzi circa delle artiglierie prodotte in Italia. Alla produzione di blindati e carri armati partecipavano, però, diverse imprese: San Giorgio e Calzoni fornivano le apparecchiature di controllo del tiro, la Breda le mitragliatrici, la Fiat i motori, la Siac le lamiere corazzate… Alla fine del conflitto mondiale anche le aziende in Italia dovettero riconvertirsi passando dalle produzioni di guerra alle produzioni di pace. L’Ansaldo, che non aveva del tutto rinunciato a una diversificazione nel civile (impiantistica industriale, costruzioni navali e ferro-tranviarie) diventò il principale polo della cantieristica navale, acquisendo il controllo societario dei cantieri Oto di Livorno e del Muggiano, oltre quello di Sestri Ponente. Nonostante si riscontrarono seri problemi di riconversione nel 30 per cento di stabilimenti di Ansaldo attrezzati esclusivamente per produzioni militari, “alla fine del 1945 iniziò il lavoro di riparazione di carri e locomotive a vapore, l’anno seguente intraprese la produzione di carri coperti e nel 1947 di locomotive elettriche, vagoni letto e vetture tranviarie.”

Si trattò della più significativa operazione di riconversione [dal militare al civile], realizzata dall’Ansaldo in tempi assai rapidi [….]”. La trasformazione di Ansaldo iniziata nel 1945 si concluse nel biennio 1949-50 con l’attuazione dei piani di Finmeccanica (nata nel 1948 nell’ambito dell’IRI), che comportarono anche massicci licenziamenti. Gli occupati passano dai 29 mila della fine del 1947 a meno di 23 mila del giugno 1950. Anche il Gruppo Oto nello spezzino fu coinvolto nel processo di ricostruzione e riconversione vissuto dalle altre imprese IRI. Mentre le attività navalmeccaniche di Oto confluirono nel Gruppo Ansaldo, sono scorporate in società autonome la Termomeccanica nel 1949 e l’Oto Melara nel 1951. L’attività produttiva di questo stabilimento si rivolse al settore ferroviario e alla costruzione di trattori. Inoltre l’azienda iniziò una nuova diversificazione produttiva nei carrelli elevatori e nel potenziamento del reparto di produzione ingranaggi. Negli anni ’50 la Oto Melara riprende anche le attività nel militare dovute a una ripresa del settore, in totale dipendenza dalla produzione finanziata dagli Usa. E dagli anni ’60 diventa la principale fabbrica italiana di cannoni navali, obici, veicoli corazzati e carri armati.

Il più grande piano per la riconversione nel civile fu presentato negli Stati Uniti nel 1969 nel pieno della guerra in Vietnam, dall’allora presidente del sindacato americano UAW, Walter Reuther. Il piano, denominato “Spade trasformate in Aratri”, prevedeva la creazione di un Fondo finanziato con una tassa del 25% sui profitti delle imprese a produzione militare. Walter Reuther fu uno dei più grandi leader sindacali americani e tra i maggiori attivisti per i diritti civili e i diritti umani a fianco del reverendo Martin Luther King. Walter Reuther morì con la moglie e altre persone in un incidente aereo nel maggio del 1970 di ritorno a Detroit. L’agenzia investigativa indipendente del Governo Usa sulla sicurezza del sistema dei trasporti civili scoprì che l’altimetro dell’aeroplano aveva dei pezzi mancanti, mentre altri erano stati manomessi o compromessi. Ma non si fece mai luce sugli autori.

E arriviamo agli anni ’90. Fine della Guerra Fredda. L’industria militare in Italia, come nel resto dei paesi europei e del mondo, attraversò un innegabile stato di crisi, determinato dal calo della domanda e, quindi della produzione. Inoltre, la crisi di mercato s’inserì in un contesto di concentrazione e razionalizzazione del settore, che accentuò i problemi di eccedenza occupazionale. Nel triennio 1988-1990 si era già registrato un calo del 10 per cento degli addetti del settore. Negli anni successivi la riduzione fu ancora più rilevante: dal 1990 al 1998 si passò da 57 a 30 mila persone direttamente occupate in produzioni militari (fonte Aiad). L’Oto Melara, per il grado di specializzazione produttiva e di dipendenza totale dal mercato militare, subì pesanti contraccolpi sul piano occupazionale. Passò da 2.379 occupati nel 1987 a 1.221 nel 1998, a cui si sommavano le 160 persone confluite nella società di missilistica ora Mbda. La crisi dell’Oto Melara e il declino del settore militare ebbe conseguenze negative sull’insieme territorio spezzino, con alcune chiusure di aziende (Usea, Cantieri Barberis ecc.) e deflagrazione della cassa integrazione. L’approccio territoriale alla riconversione fu vincente. Grazie agli investimenti pubblici derivanti dai programmi Konver I e II e dai fondi strutturali europei, insieme a positive dinamiche di mercato che favorirono investimenti privati – in pochi anni si creò un distretto industriale nel settore nautico, con 478 aziende in massima parte artigiane, di cui oltre il 60 per cento nate dal 1994, nelle seguenti tipologie di attività: cantieristica navale (yacht e mega-yacht), costruzione e riparazioni d’imbarcazioni e motori marini, meccanica e carpenteria, servizi al diporto e al turismo nautico. In questo distretto l’occupazione aveva già superato i 3 mila addetti. Il peso del settore militare a La Spezia diminuì, passando – nel periodo 1991 al 2004 – dal 9,6 al 2,8 per cento sul totale dell’occupazione e dal 41 al 19 per cento sul numero di occupati nell’industria manifatturiera. Nella Fincantieri il riposizionamento verso il civile evitò il ridimensionamento avvenuto in altre aziende. Anche la Divisione Costruzioni Militari, concentrata in Liguria con la sede direzionale a Genova e unità di costruzione al Muggiano e a Riva Trigoso, dopo una fase prolungata di crisi e ricorso alla cassa integrazione, trovò nel settore civile (i traghetti veloci) e in unità contigue al militare (protezione civile, ricerca oceanografica, guardia di finanza ecc.) un’alternativa produttiva e di mercato che consentì la piena operatività dei cantieri. Per riqualificare la manodopera nella costruzione dei traghetti veloci anche la Fincantieri beneficiò dei contributi del programma Konver 1. Oggi questa produzione è realizzata da Fincantieri a Castellamare di Stabia, cantiere navale altrimenti destinato alla chiusura. E per confermare che la riconversione dal militare al civile non solo è possibile, ma fa bene all’economia e all’ambiente, mi piace ricordare sia lo sviluppo a Taranto negli anni ’90 del settore eolico come spin-off di tecnologie impiegate da Finmeccanica in campo aeronautico militare, sia l’esperienza realizzata nel 1993 alla Lockheed Martin nella fabbrica di New York. L’azienda americana con la riduzione dei budget militari, spostò con successo le competenze specialistiche di uno dei suoi team, dalla produzione di aerei militari alla produzione di un sistema di trazione ibrida per autobus chiamato “HybriDrive”. Nonostante, nel 1999, Lockheed Martin abbia venduto l’impianto di produzione degli autobus HybriDrive, abbandonando i suoi sforzi per liberarsi dalla dipendenza dalle spese militari, sotto la nuova gestione di BAE Systems, gli autobus ibridi e i loro nuovi modelli a ‘emissioni zero’ continuano a circolare nelle città di New York, Londra e Tokyo. Al contrario in Italia nessuno produce più tram e autobus.

L’ampia relazione di Gianni Alioti si conclude  con due esperienze recenti durante la pandemia del Covid 19. “Negli Stati Uniti per gestire l’emergenza sanitaria si sono coinvolte le capacità produttive dell’industria militare, ad esempio, per accelerare la produzione di forniture mediche e equipaggiamento protettivo necessario. È il caso della Puritan Medical Products, un’azienda familiare con circa 500 dipendenti e un impianto di produzione a Guilford, nel Maine. L’azienda nell’aprile 2020 era l’unico produttore di tamponi approvati per i test Covid. La Puritan non aveva idea di come aumentare la propria capacità produttiva, di come e dove procurarsi nuovi macchinari e linee dedicate al confezionamento del prodotto. I funzionari dell’Air Force Research Laboratory hanno trovato rapidamente una vicina azienda del settore militare in grado di aiutare la Puritan: la General Dynamics Bath Iron Works, che costruisce il cacciatorpediniere di classe Arleigh Burke per la Marina Militare. La Bath Iron Works insieme alla propria catena di sub-fornitori ha convertito una parte delle sue capacità produttive per fabbricare le macchine necessarie a Puritan per allestire un secondo stabilimento a Pittsfield, nel Maine. Con un contratto da 76 milioni di dollari la Puritan ha iniziato a maggio a produrre in questo sito 20-40 milioni di tamponi in più al mese. E nei successivi tre mesi, raggiunto il pieno utilizzo degli impianti, è stato realizzato un terzo stabilimento in Tennessee, utilizzando sempre macchine realizzate da Bath Iron Works per il confezionamento del prodotto.”

Le esperienze presentate da Alioti, nella sua straordinaria conoscenza dei processi industriali, ci confermano che il “piccolo passo possibile” per promuovere e costruire percorsi di pace è un compito affidato a ciascuno, nella sua piccola o grande responsabilità. Essere noi stessi, attraverso la conoscenza, la promozione di progetti, la tessitura di relazioni riconciliate e riconcilianti, il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo, secondo l’espressione di Gandhi.