Rossana e Sandro, Gloria e Luciano, Emma e Michele, Liliana e Filippo
Siamo arrivati in Sudafrica in otto, ospiti dei p. Comboniani e di P. Efrem Tresoldi, nostro comune amico e che ben conosce Pax Christi, Molto interessante è stato dialogare con lui, presente nel Paese dai tempi dell’apartheid. Ci ha raccontato, tra l’altro, di quella che fu la “Commissione per la verità e riconciliazione” guidata dal vescovo Desmond Tutu. Ma ci ha anche riferito, purtroppo, della corruzione attualmente diffusa nell’African National Congress (il partito di Mandela). Una corruzione che soffoca l’intera società sudafricana bloccando qualsiasi iniziativa di riscatto per questo popolo, perché in qualsiasi settore, soprattutto pubblico, c’è corruzione. E allora capita, ad esempio, che la corrente elettrica manchi per ore perché le strutture elettriche sono carenti, ma non viene fatta la manutenzione per non correre il rischio di dover pagare un prezzo ai corruttori oppure rischiare di morire se denunci la corruzione. Naturalmente senza corrente elettrica non funzionano le pompe e non c’è neppure l’acqua e tutto il resto. La conseguenza è che tutto si ferma oppure funziona con i generatori, per chi se li può permettere.
Il primo giorno di permanenza in Sudafrica, abbiamo fatto visita a Pretoria per la festa dei 100 anni di presenza dei comboniani in quel Paese. La ricorrenza è stata celebrata nella parrocchia dove è stato parroco P. Giorgio Stefani che alcuni di noi avevano conosciuto quando era studente di teologia a Napoli. Morto a 40 anni per uno shock anafilattico, in seguito a punture di api. Durante il viaggio verso pretoria P. Efrem ci ha raccontato un episodio di cui è stato protagonista P. Giorgio, che condividiamo con voi.
Nella sua prima esperienza pastorale in Sudafrica, nella parrocchia di Mount Ayliff, in un villaggio dieci persone furono uccise in una serie di attacchi e vendette. Il villaggio, che era attraversato da un fiumiciattolo, si divise in due fronti. P. Giorgio decise di fare qualcosa per fermare la spirale di violenza e far riconciliare la comunità. Dopo aver parlato con la gente e con i suoi leader, decise di organizzare sul posto, insieme al ministro della locale chiesa anglicana, una celebrazione di riconciliazione. Davanti ai due gruppi schierati da una parte e dall’altra del fiumiciattolo che divideva il villaggio, P. Giorgio e il ministro anglicano invitarono tutti a pregare gli uni per gli altri. Così la gente si chiese perdono reciprocamente e alla fine tutti si strinsero la mano. Nessun altro incidente accadde dopo quella celebrazione di riconciliazione alla quale anche il vescovo locale aveva voluto partecipare.
Questo episodio ci fa riflettere sul senso e significato della preghiera che può diventare uno strumento che aiuta a disinnescare i conflitti. Tante, troppe volte nella chiesa invece che pregare per i nemici, abbiamo benedetto guerre, eserciti ed armi e maledetto i nemici. L’unica cosa che dovremmo imparare a maledire sono le armi.
Tante volte nelle guerre si prega per la vittoria invece che per la pace. In questa storia della vita di P. Giorgio, invece, la preghiera ha contribuito a disarmare gli animi e messo fine ad una faida sanguinosa e alla spirale di violenza.
Domenica abbiamo visitato una parrocchia in una città ad una cinquantina di km da Johannesburg. Parroco è un comboniano etiope. Con P. Efrem abbiamo partecipato alla celebrazione domenicale in una delle comunità della parrocchia. Durante il viaggio ci siamo resi conto delle contraddizioni, e della povertà che caratterizzano la maggioranza della popolazione sudafricana. Se questa situazione è già visibile nella metropoli di Johannesburg è ancora più evidente nella periferia e nelle città limitrofe: lungo la strada ci hanno colpito numerose baraccopoli, chiamate con farisaico eufemismo “insediamenti informali”. Sono estese per chilometri e chilometri queste baracche di latta e plastica dove vivono centinaia di migliaia di persone senza nulla, solo strade impolverate piene di bambini, per lo più scalzi.
Nella comunità abbiamo però sperimentato quanto sia grande e forte la capacità degli Africani di accogliere e di valorizzare il senso dell’ospitalità. Tanti sono venuti a salutarci personalmente e, anche se non erano stati preavvisati del nostro arrivo, alcuni ragazzi e ragazze della comunità hanno inscenato per noi un piccolo concerto di canti e danza alla fine della liturgia.
Nella visita a Johannesburg la città ci è apparsa come metropoli in continua espansione, con tanto verde e tante contraddizioni. Una città nata intorno alle vecchie miniere di oro. Una città dove ricchezza e povertà si confondono senza soluzioni di continuità. Una città dove chi vive bene, anche senza particolari ricchezze, deve circondarsi di mura di cinta, filo spinato e allarmi. Perché le situazioni di povertà sono così esasperate che i furti e le rapine sono una realtà quotidiana.
E’ la situazione che abbiamo sperimentato pure nella casa comboniana dove siamo stati ospitati, anche se non aveva niente di lussuoso. I padri si sono sempre premurati di raccomandazioni relativamente alla chiusura delle porte e del cancello di entrata, ci hanno “proibito” di andare a passeggiare o altro nel quartiere. Stessa situazione a Città del Capo, dove ci siamo recati in visita per tre giorni, ospiti di una comunità di suore. Si percepisce di vivere in una situazione di pericolo costante, in particolare se si è turisti e quindi facilmente identificabili come tali. Tutto questo testimonia la povertà in cui vive tanta gente. Anche i fili dei treni vengono rubati e, purtroppo, non rimpiazzati; così capita che una intera linea ferroviaria non funziona perché mancano i fili
Ma vorremmo ricordare con profonda emozione la visita che abbiamo fatto, a Johannesburg, alla Collina della Costituzione. Ricavata ristrutturando una parte delle prigioni dove è stato a lungo incarcerato anche Nelson Mandela e, prima di lui, Gandhi. Lì è costantemente accesa la fiamma della democrazia, voluta da Mandela. Le carceri sono diventate museo nazionale. Colpisce l’orrore e la crudeltà di quell’istituzione, ma, soprattutto, fa pensare come uomini come Mandela e Gandhi e altri siano riusciti, in quelle condizioni di vita disumane, a maturare e consolidare le scelte di nonviolenza. Scelte che hanno permesso di portare i loro popoli a combattere e vincere contro il sistema di apartheid e del colonialismo e a traghettare i loro Paesi verso democrazie compiute, anche se ancora fragili e piene di contraddizioni e ingiustizie sociali.
Interessante ed esteticamente piacevole è stata la visita al quartiere Bo-Kaap di Città del Capo, conosciuto anche come quartiere malese. Fatto di tante case, vivacemente tinteggiate con svariati e accesi colori, è simbolo di libertà. Infatti, originariamente il quartiere era soltanto di case bianche, abitate da schiavi in gran parte provenienti dalla Malesia. È stato bello vedere in questo posto, oggi ricco di attrazioni culturali, bandiere e scritte inneggianti alla libertà e ai diritti della Palestina.
Non potevamo visitare l’Africa senza andare ad ammirare le meraviglie della savana e degli animali che la abitano. Siamo stati due giorni nel Pilanesberg National Park, Tra le tante emozioni di meraviglia che abbiamo sperimentato ammirando i paesaggi e gli animali che via via abbiamo avuto l’occasione di incontrare da vicino viene da pensare alla vicenda di Giobbe narrata nella Bibbia. Negli ultimi capitoli della sua lunga discussione con gli amici, finalmente interviene Dio che Giobbe aveva più volte chiamato in causa contro di loro, in quanto insistevano nel difendere la tesi che se lui stava soffrendo era perché aveva peccato. Dio alla fine interviene nel dibattito e risponde a Giobbe, ma non si addentra in disquisizioni filosofiche o teologiche sul senso e perché della sofferenza. Semplicemente racconta a Giobbe tutte le cose belle che ha fatto e Giobbe ascolta la lunga descrizione che Dio gli fa delle meraviglie del creato. Poi, di fronte alla domanda di Dio: “Dove eri tu quando gettavo le fondamenta della terra?”, Giobbe resta ammutolito e in silenzio e conclude dicendo:” Ti conoscevo solo per sentito dire, ora invece ti ho visto con i miei occhi”.