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SEMI d’Africa: intervista a Aminata Traoré

(da Il Manifesto del 19 Ottobre 2011)
di Geraldina Colotti

«Dalla Costa d’Avorio alla Libia, l’Occidente cerca di accaparrarsi le nostre risorse esportando con le bombe un simulacro di democrazia», dice la sociologa maliana Aminata Traoré.
«Per i popoli oppressi, la crisi attuale può essere un’occasione per cambiare le carte in tavola. Sostengo con forza i movimenti degli indignados», dice al manifesto la sociologa maliana Aminata Traoré. Nata nel ’47 a Bamako, Traoré è stata ministro della Cultura e del turismo, è attivista e fondatrice del Forum sociale africano e dirige il Centro studi Amadou Hampâté Bâ. Autrice di numerosi saggi come L’immaginario violato (Ponte alle Grazie) e l’Africa umiliata (Avagliano, 2009), Aminata ha appena concluso un ciclo di conferenze in Italia, invitata dal Cospe (Cooperazione per lo sviluppo dei paesi emergenti) nell’ambito della campagna «Una terra per tutti».
L’Africa non riesce a nutrire se stessa. Come mai?
La crisi alimentare è una delle dimensioni tragiche del fallimento del modello capitalista, che oggi è attraversato da una crisi sistemica. Una situazione drammatica che si rivela nella distruzione dell’agricoltura, spina dorsale del nostro continente. Dopo le indipendenze, una certa idea di sviluppo ha pensato più ad alimentare le fabbriche che le persone. Gli stati non hanno investito sui piccoli contadini. Dagli anni ’80 in poi, i Piani di aggiustamento strutturale del Fondo monetario internazionale hanno imposto dappertutto la stessa logica neoliberista basata sulle privatizzazioni e sull’esortazione a produrre per l’esportazione. In questo modo, hanno impoverito l’agricoltura locale e mandato sul lastrico i piccoli produttori. Hanno minato la coesione sociale. Il Mali è stato spinto a puntare tutto sul cotone, e a importare i prodotti di prima necessità, ma è il compratore a stabilire il prezzo e a determinare il gioco sui mercati internazionali. I contadini maliani, pur offrendo un cotone di ottima qualità, non possono competere con quelli statunitensi, sostenuti da forti sussidi statali, e sono in balìa del rincaro dei prezzi. È un rapporto ingiusto e asimmetrico che evidenzia la natura predatrice del capitalismo a livello globale. Questo modello ha senz’altro prodotto dei nuovi ricchi, ma ha ridotto alla fame la gran parte della popolazione. Per invertire la tendenza, si deve poter disporre delle proprie risorse e della terra, occorrono finanziamenti e tutele per i piccoli produttori locali. Occorrono governi che non si lascino corrompere, e resistano ai dettami delle grandi istituzioni internazionali.
Durante la crisi politica in Costa d’Avorio – un paese che conosce bene per esserci vissuta a lungo – lei ha unito la sua voce a quella di altri intellettuali africani per protestare contro la cacciata manu militari dell’ex presidente Laurent Gbagbo da parte della Francia e dell’Onuci. Perché?
Dalla Costa d’Avorio alla Libia, l’Occidente cerca in modo cinico di accaparrarsi le risorse naturali dell’Africa per far fronte alla competizione con la Cina. Attraverso le grandi istituzioni internazionali, anche l’Europa compra le terre rare per introdurre semi transgenici, e i contadini vengono espulsi. L’Onu in Africa non è uno strumento di pace, la sua funzione è quella di difendere gli interessi delle grandi potenze. Occorre ridefinire un nuovo quadro di regolazione delle relazioni internazionali, basato su una vera sovranità degli stati africani e sulla loro collaborazione: in base a progetti che partano dalla società. Oggi, invece, quando i nostri governanti non sono più graditi all’Occidente, subiscono boicottaggi o vengono spazzati via. Difficile che un governo di sinistra possa resistere senza subire ingerenze. Il modello è sempre lo stesso: si comincia con le sanzioni per creare penuria di beni e strumentalizzare la collera delle popolazioni, e poi si inviano le truppe col pretesto di difendere i civili.
Le Primavere arabe hanno infiammato il Nord Africa, pensa che il vento possa estendersi al resto del continente?
Io dirigo il centro di ricerche e di indirizzo sociale dedicato ad Amadou Hampâté Bâ. Ne fanno parte oltre 1.000 donne. Insieme riflettiamo sulle grandi questioni, su una vera alternativa per il nostro continente. Organizziamo conferenze, diffondiamo progetti e idee. Sono le donne il motore dell’economia in Africa, la loro presenza è fondamentale nella produzione agricola. Le donne sopportano i costi della crisi senza neanche poter emigrare come gli uomini, perché devono occuparsi della famiglia. Nel libro che sto preparando rifletto sul tema della democrazia dal punto di vista delle donne. Dico, però, che l’Occidente non può pretendere di esportare da noi – magari con le bombe – un modello già in crisi nelle proprie società. Per fare il bene dell’Africa, non basta assicurare le elezioni.