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Il sorriso della speranza sfida per la politica

Ricordo di monsignor Luigi Bettazzi a un mese dalla morte

 I primi commossi ricordi di monsignor Luigi Bettazzi — morto il 16 luglio scorso a quasi 100 anni — si sono giustamente concentrati sulla passione e sulla coerenza con cui ha testimoniato il Vangelo, sulla fedeltà al Concilio del quale era stato partecipe per poi divenirne coraggioso interprete, sulla sete di pace e di giustizia che è rimasta il motore incessante della sua vita. Per questo ha cercato continuamente il dialogo e nel dialogo la verità che Dio ha iscritto nell’anima di ogni persona, soprattutto dei più piccoli, di chi più è nel bisogno. Il suo orizzonte non era certo limitato allo spazio politico. Guardava oltre, alle speranze dell’umanità, alla Chiesa in cammino nella storia, al legame che non si può nascondere tra spiritualità e riscatto dei poveri. Tuttavia la radicalità evangelica e la profezia di monsignor Bettazzi hanno incrociato anche la politica, eccome, e riflettere sui segni rimasti impressi può essere utile ora che viviamo tempi di grandi mutamenti e anche di spaesamenti.

Scrisse lettere a leader di partito, a uomini delle istituzioni, a grandi capi azienda. Si fece interprete di istanze da altri taciute. Suscitò scandalo tra i benpensanti. Bettazzi usava toni garbati, ma i contenuti erano forti. Non vedeva nemici, tuttavia non nascondeva critiche e dissensi. Il dialogo non doveva servire ad attenuare le diversità ma a essere sinceri, autentici, e a ricercare i passi per camminare insieme.

Lo scambio più famoso è certamente quello con Enrico Berlinguer, tra il 1976 e il 1977, anche per l’impegnativa risposta che il segretario del Pci diede allora al vescovo di Ivrea: un partito non teista, non ateista, non anti-teista; in uno Stato anch’esso non teista, non ateista, non anti-teista. Questo il profilo di laicità che Berlinguer volle disegnare, sollecitato dalle contestazioni di monsignor Bettazzi per l’“assolutezza” del materialismo dialettico e le forme oppressive, anti-religiose, del “comunismo reale”. Peraltro, la laicità necessaria in un sistema pluralista e democratico aveva bisogno di definire una nuova cordialità, una positiva collaborazione con il sentimento religioso, e la sua vocazione trascendente. Berlinguer ribadì che la coscienza religiosa non era riducibile al privato ma anzi poteva dare un contributo importante al cambiamento sociale (anche in senso “socialista”, scrisse). Bettazzi si trovò così a registrare non solo un superamento della vulgata marxista sulla religione “oppio dei popoli” ma anche un arricchimento del concetto di laicità che — come si è visto in seguito — non è affatto scontato nel mondo contemporaneo. Laicità non è scomparsa della fede dallo spazio pubblico ma libertà anche della religione e suo riconoscimento come fonte di conoscenza, come forza propulsiva, come generatrice di idee e di prassi, ovviamente in contesti democratici e pluralisti.

Certo, monsignor Bettazzi non si fermava alle parole e alle buone intenzioni. Era nel concreto che misurava i propositi. Perché è nel concreto che i poveri soffrono, che le ingiustizie si compiono, che la volontà di potenza sfregia la pace. A Benigno Zaccagnini, appena divenne segretario della Dc, scrisse che la coerenza cristiana del suo partito sarebbe stata giudicata dall’azione effettiva per l’equità sociale e per l’uguaglianza. Da presidente di Pax Christi denunciò il commercio delle armi, sfidando il potere della gigantesca industria bellica, e neppure le bombe lo fermarono quando si trovò — insieme a don Tonino Bello e a un gruppo di volontari — a marciare a Sarajevo, nel pieno della guerra dei Balcani, per chiedere lo stop allo sterminio, alla distruzione, all’odio etnico.

Forzare il realismo politico. È una sfida umana che può trarre spinta dalla spiritualità evangelica. Bettazzi ha provato a tradurre spes contra spem, non si è curato dei tanti scettici. Tuttavia non ha mai nascosto che l’azione politica, per quanto ben riuscita, conterrà sempre un’insufficienza, provocherà sempre un non pieno appagamento. Proprio in questa imperfezione c’è una grandezza che un giovanissimo Aldo Moro seppe descrivere con parole toccanti: «Forse il destino dell’uomo non è di realizzare pienamente la giustizia, ma di avere perpetuamente della giustizia fame e sete. Ma è sempre un grande destino».

Il sogno di monsignor Luigi Bettazzi era riproporre la fraternità, anello debole del trinomio rivoluzionario francese, come valore e come progetto. Era stato nominato vescovo nell’anno (il 1963) in cui Giovanni XXIII distingueva l’errore dall’errante, i movimenti storici dalle ideologie che li avevano originati. Il nuovo umanesimo era il suo cantiere “politico” aperto. Con il sorriso esprimeva fiducia, speranza. Perché c’è una trascendenza, un desiderio dell’oltre, che soffia in tutte le coscienze umane. Non servono dunque fortezze per difendersi. La Chiesa in uscita è forse l’espressione di Papa Francesco più congeniale alla vita di Bettazzi. Se la spiritualità del Vangelo irrigasse, un po’ di più, il terreno dell’umanità in cerca di giustizia, anche la politica concreta non potrebbe restare insensibile.

di CLAUDIO SARDO

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