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Storie dalla Palestina

Sono tornata da poco più di un mese dalla Palestina. Sono partita il 9 di gennaio per fare un periodo di tirocinio al Community Action Center dell’università di Al-Quds a Gerusalemme. Prima di partire avevo tante paure e preoccupazioni. Era la prima volta che andavo in Medio oriente in un paese arabo sotto occupazione militare. Non sapevo cosa aspettarmi. Ho contato i 60 giorni esatti, il minimo richiesto dal bando Erasmus. Dopo un po’ di tempo là, ho deciso di prolungare la mia permanenza perché non volevo più tornare.

Il giorno dopo il mio arrivo a Gerusalemme ho iniziato a lavorare al centro legale. Mi è stato chiesto dal mio tutor Moneer di studiare meglio la storia della Palestina e di Gerusalemme est. Pensavo di saperne abbastanza dopo anni di studio all’università, libri, documentari, incontri, cene palestinesi nella comunità delle Piagge. Dopo pochissimo mi sono accorta che la situazione era più complessa di quello che sapevo, un conto è leggere certe situazioni un altro è vederle.

Il Community Action Center è uno studio legale che si offre di assistere i Palestinesi con i problemi che l’occupazione comporta, prevalentemente di tipo burocratico. Io facevo parte dell’unità di advocacy che si occupa di redigere documenti per affrontare problemi specifici. A me è stato chiesto di studiare e scrivere sulla revoca della cittadinanza dei Palestinesi in Israele per motivi di mancata fedeltà allo stato di Israele. Ho avuto modo di studiare da un punto di vista legale la situazione in Palestina, mi sono confrontata spesso con i miei colleghi e ho potuto vedere e capire l’illegalità di tantissime azioni di Israele nei confronti dei Palestinesi.

Durante il mio tempo libero andavo avanti e indietro tra Gerusalemme e la Cisgiordania, tra un checkpoint e un altro. Durante il primo periodo ho avuto un po’ di difficoltà ad ambientarmi al clima politico, all’ambiente, alle culture diverse, alle lingue nuove, al caos della città vecchia, ai nuovi odori e così via. Dopo poco ho deciso di fare sia un po’ di attività sportiva che un po’ di volontariato. Per quanto riguarda la prima ho conosciuto, tramite il mio tutor, i ragazzi di Right to Movement che ogni anno organizzano una maratona in Palestina. A me di correre non mi è mai interessato molto però i ragazzi del gruppo mi hanno messa in contatto con il gruppo di Wadi climbing. Loro hanno una piccola palestra di arrampicata a Ramallah. Io le scarpette per scalare le avevo portate con me perché avevo visto su Google Maps che in Israele ci sono tante palestre per arrampicare. Alla fine in Israele ci sono stata poco e in palestra da loro non ci sono mai andata.

Non pensavo che fare dell’attività sportiva comportasse così tante difficoltà. Innanzitutto, per arrivare a Ramallah bisogna attraversare uno dei checkpoint peggiori, quello di Qalandyia. Dall’altra parte spesso dovevo prendere un autobus per arrivare in palestra, ma le fermate non erano indicate e dovevo andare a sentimento e fermare il primo bussino giallo che trovavo per strada. Ogni tanto con il gruppo Wadi andavamo a scalare in falesia; quindi, ci spostavamo tra le varie zone a, b e c. Il nostro gruppo, visto che era composto prevalentemente da persone palestinesi, doveva rigorosamente rimanere in territori palestinesi. Un giorno abbiamo arrampicato in una parete dove molto vicino c’era un insediamento israeliano illegale. Dopo pochi minuti sono venuti dei militari israeliani a mandarci via. Tra di noi c’erano degli avvocati che, in ebraico, hanno chiesto di mostrarci dei documenti che attestassero che non potevamo stare lì. Ovviamente quelli illegali erano loro, non noi. Dopo poco, dall’insediamento, sono arrivati dei ragazzi minorenni che, spinti dalla noia, hanno iniziato a minacciarci con i sassi. Abbiamo inutilmente chiamato la polizia, che non è mai arrivata. Mi hanno detto di stare tranquilla perché erano cose che capitano molto spesso.

Per quanto riguarda le attività di volontariato ho scelto due campi profughi, uno a Ramallah e l’altro a Betlemme. Nel primo ho fatto un po’ di ginnastica con i bambini del campo e il gruppo abc Palestine. Lo scopo di questi ragazzi è quello di mantenere occupati i bambini durante il weekend e di insegnare loro ad andare in bicicletta per potersi spostare liberamente nei territori a, b e c. Nel secondo campo profughi a Betlemme ho trascorso la maggior parte del mio tempo libero. Insieme a Naji dell’associazione di giovani di Laylac ho conosciuto molti ragazzi tra i 14 e i 24 anni. Molti dei più grandi frequentano l’università di Al-Quds dove ho svolto il mio tirocinio. Grazie alle loro testimonianze ho scoperto uno degli aspetti più tristi del regime di apartheid. Recentemente uno dei loro amici più stretti era stato ucciso dai militari israeliani perché provava a difendere il fratello più piccolo, che avevano arrestato poco prima per motivi che sono ancora oggi da definire. I ragazzi del campo vanno tutti i giorni a far visita a Omar al cimitero e alla sua famiglia e a quella di altri martiri.

Le emozioni che si provano nel campo di Dheisheh sono contrastanti. Da un lato è un posto in cui il senso di comunità è molto forte per via delle storie che accomunano tutti e per lo spazio ristrettissimo del campo; dall’altro lato però, almeno personalmente, ho provato tanta tristezza e senso di impotenza a sentire molte storie e non poter fare nulla. L’unica cosa che mi hanno chiesto tutti i palestinesi è quella di dare voce una volta tornata in Italia alle loro storie.

Non mi bastano le parole per descrivere e raccontare tutto quello che ho visto, fatto e ascoltato durante i miei tre mesi di tirocinio in Palestina. Sono stata trattata come una sorella e una figlia da persone con cui molto spesso non riuscivo a parlare per via della barriera linguistica. Sono stata accolta in casa di moltissime persone e ho avuto modo di partecipare a pranzi e cene più che abbondanti. Durante il periodo di Ramadan ero tutte le sere a un iftar con una famiglia diversa.

In Palestina ho avuto modo di stare a stretto contatto con un popolo incredibilmente bello che, nonostante le difficoltà di tutti i giorni, non si arrende e continua a resistere.