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Alidad sa

Riflessioni sulla stage di Cutro

Betta Tusset, Campagna sulle soglie, senza frontiere

“Il mio cuore è a pezzi, ho paura di chiudere gli occhi perché mi viene in mente l’immagine dei pianti dei familiari, l’immagine della bambina di appena sei anni, della donna con gli occhi aperti e la bocca aperta.

Non avevo mai visto così tanti corpi, anche se sono cresciuto in un paese di guerra, tante foto di persone morte: bambini, donne, giovani e anziani, in modo così disumano.

Soprattutto era troppo duro dare le brutte notizie alle famiglie, e dire loro che i loro cari non ci sono più, fargli vedere le foto attraverso le videochiamate, e sapere che sarebbero scoppiate a piangere. Ho cercato di dare una mano ai familiari e cercare mio cugino.

Purtroppo ancora niente, è tra i dispersi. Ho parlato con un amico di mio cugino e con la polizia scientifica e si è concluso che quella salma non è di mio cugino. Lui è  ancora tra i dispersi.

Sua sorella a Teheran lo ha sognato che le diceva: Io sono vivo.  Ha 17 anni. Si chiama Atiqullah Khalili.”

Partiamo da Alidad, dal nostro Alidad, da Alidad Shiri che molti di noi conoscono di persona o perché la cara Gina Abate ce lo ha presentato attraverso i suoi racconti appassionati: la loro amicizia, il loro reciproco prendersi cura, le loro vite intrecciate per… semplicemente condividere un tratto di vita.

Alidad è corso a Cutro a cercare il suo giovane cugino disperso. E intanto si è lasciato immergere nel dolore e nella speranza delle famiglie arrivate, come lui, da ogni parte dell’Europa. Loro, come lui, conoscono davvero il viaggio, le fatiche, gli abomini, la paura. E conoscono i nomi di persone che per noi neanche sono corpi, ma numeri a cui attribuire un allocamento macabro e assurdamente tardivo.

Le immagini da Cutro, i pezzi di quel guscio di noce che era stato una barca ed è divenuta anticamera di obitorio o neanche quello per molti. Le bare, i discorsi retorici, i discorsi aberranti. Le assenze, le presenze ingombranti. Il nuovo decreto.

Ancora una volta siamo di fronte all’ennesima strage in mare, davanti alle coste – come non ricordare quelle lampedusane a cui sono approdati, il 3 ottobre 2013, 368 ‘cadaveri accertati’ e  20 ‘dispersi presunti’- di una terra che doveva essere di passaggio forse per molti, o di sosta temporanea oppure di permanenza, per altri.

Siamo stati travolti da immagini, da considerazioni e proclami, con la novità della colpa agli scafisti. Forse io ho conosciuto qualche scafista quando qualcuno, tra i ragazzi  arrivati fin qui al nord, mi ha raccontato parte della sua storia ‘di viaggio’: “Mi hanno fatto uscire dalla prigione libica e siamo arrivati sulla spiaggia, di notte. Mi hanno fatto salire sulla barca e mi hanno chiesto se sapevo guidare. Io ero stato pescatore, per un po’, ma il mare così, e tutta quella gente… Hanno messo le taniche in fondo alla barca, mi hanno dato una bussola. E… vai dritto così, per l’Italia.”

Non so se gli scafisti sono questi, forse anche questi. So che il problema è a monte, molto a monte. Marcisce nelle crepe della terra di villaggi che offrono a malapena il pane e l’acqua per sopravvivere a causa di scelte economiche disumane;  si nutre  del fetore di città impoverite dallo sfruttamento neocolonialista; incancrenisce tra i rottami fumanti di bombe esplose per gli interessi dei potenti di turno;  langue tra la corruzione e i visti inesistenti per chi decide, per sogno o per bisogno, di partire verso terre che nemmeno conosce.

Il viaggio per mare è l’ultimo tratto, visibile a noi soprattutto quando si trasforma in naufragio, di un percorso lungo, dolorosissimo. E noi, noi che siamo nati e cresciuti qui,  fatichiamo a com-prendere, ad assumere il dolore e lo sforzo di chi ha lasciato l’incerto per l’incerto.  Forse non riusciremo mai a farlo, forse ci sono spazi altrui su cui possiamo solo affacciarci, con discrezione e rispetto. Possiamo informarci, abbiamo il dovere di farlo.  

Invece Alidad sa. Ed è andato laggiù cercando un volto. Noi possiamo e dobbiamo ascoltare, partire dalle singole, tutte differenti, storie personali. E poi  agire affiancando, ma in silenzio e con il pianto in gola.