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Papa Francesco in Congo e Sud Sudan

Qualche sollecitazione a Pax Christi.

Gianni Novello

Dopo l’ultima visita di papa Francesco in Africa, molti mi hanno chiesto se questa è servita. E a che cosa! D’altronde i grandi giornali hanno decisamente snobbato questo viaggio dando anche una prova di chiuso provincialismo, e di gretta obbedienza alle preoccupazioni economiche e commerciali di quei gruppi che di zone dell’Africa si interessano solo per i possibili ricavati dal ricchissimo sottosuolo. Il Papa ha vissuto una visita in un clima di grande empatia contraccambiata dalla popolazione che lo ha atteso da tempo e lo ha poi accolto con entusiasmo lungo le strade della capitale Kinshasa e di Juba nel SUD Sudan. C‘erano centinaia di migliaia di persone in una fiduciosa espressione di speranza. Si è trattato di una festa come sfida alla rassegnazione, e ai pessimismi sul futuro dell’Africa. Il Papa ha potuto toccare con mano i problemi della gente nei continui incontri svoltisi in modo coinvolgente, ascoltando le vittime di tanta sofferenza.

Ho seguito la visita come tanti di noi, da lontano. Mi ha però ricordato quanto ho imparato dalle mie ventisei visite abbastanza prolungate tra la gente del Congo orientale, la zona più sofferente per i continui conflitti decennali. Una guerra con tantissime vittime su cui anche nella nostra Europa sembra più conveniente il silenzio. Nell’accoglienza festosa al Papa certamente erano mescolate chissà quante storie. C’era anche la tua storia, Edwige, e la tua, Katembo, che per fame ti sei fatto tentare e sei scappato con i mai-mai pentendone presto e tornando con vergogna al tuo villaggio. C’era anche la tua storia, Matsoro,  e la tua Mathias , Leona, e la vostra di voi donne Tuendeleo che avete anticipato esperienze di microcredito, e la vostra di voi Laurent, Baioli, e ancora la vostra di voi che combattete l’analfabetismo con povere scuole lontano  sulle montagne, con la proposta di imparare a leggere e scrivere per diventare servitori del villaggio.

Io so che ogni giorno non ci sono soltanto i morti dei conflitti armati, ma anche quelli che muoiono, spesso ancor ragazzini, nelle miniere, per qualche inezia di guadagno. Vittime sono i numerosi suicidi di giovani senza futuro di pace, di sviluppo, di giustizia; i suicidi di donne stuprate poiché anche questa è un’arma vigliacca sempre più usata davanti al nostro silenzio. Nella crudeltà giornaliera dei conflitti, vittime sono anche quelli che scelgono scorciatoie di denaro facile, talvolta dei piccoli furti per sopravvivere, rischiando sempre più di sbattersi con l’ira dei derubati del loro poco, oggi tentati sempre di più a farsi giustizia da soli con linciaggi in pubblico come pretesa lezione e orribile spettacolo, anche con la presenza di bambini.

Tutto tristemente vero. Silenzio incomprensibile. Donne, uomini, bambini, giovani, famiglie che, coscienti e impotenti, vedono le loro vene svuotarsi. Stupiti o rassegnati?  Si chiedono e ci chiedono DOVE SIAMO NOI. MI ha sollecitato con questa domanda radicale un missionario che nel Kivu c’è vissuto più di cinquant’anni. Credo che anche in Pax Christi occorre parlarne di più, con responsabilità e vicinanza. Negli anni ’80, ero nel direttivo internazionale del movimento e si era scelto come priorità di monitorare soprattutto quei conflitti dove era coinvolta la fede dei protagonisti, come oggi una fede ambigua e corrotta di alcuni oppure una fede umanamente liberatrice di altri. Fede di questi ultimi, profetica e martiriale, incarnata nel popolo, da cui imparare come discepoli, e da far conoscere nel mondo. Ce lo aveva insegnato la pratica di “mitezza forte” di monsignor Romero e del popolo salvadoregno. Avevamo avuto il coraggio di organizzare con altri movimenti per la pace una Visita Fraterna ai popoli del Centro America per rendersi conto del sistema di morte, dei “peccati strutturali” da denunciare, delle tante testimonianze di impegno da far conoscere. Ci è anche valso nel 1983 il Premio Unesco per l’educazione alla pace. Questo passato coraggioso di Pax Christi ci ispiri oggi una creatività audace per avvicinarci alle esigenze delle vittime nel Congo e nel Sud Sudan. E altrove, poiché ci saranno sempre degli altrove con cui vivere e creare segni di speranza.,

Ho pensato spesso quanto allora e in altre occasioni sia stato determinante per capire sofferenze e speranze di vittime delle violenze non usare soltanto la testa e il cuore, “a distanza”, ma i piedi per avvicinarsi a loro. Proprio come ha fatto il Papa con la sua visita in queste sofferte periferie africane del mondo.

Il Papa è venuto ad odorare la situazione, con la chiamata a farsi “pescatori di umanità”. Ha parlato nella concretezza della vita difficile dei due Paesi. Come Gesù ha parlato con parabole. Ai giovani ha chiesto di guardare con fierezza e con fiducia alle dita delle loro mani. Dando loro un nome per una chiamata: preghiera, comunità, onestà, missione, servizio. Davanti alle vittime ha ripetuto con accenti e parole diverse che l’Africa non è una miniera da saccheggio. Ha sperato che il grido potesse  arrivare ai responsabili : “Giù le mani dall’Africa!

I piedi diretti a passi di pace ti portano là dove ti avvicini alle situazioni davanti a cui discernere e scegliere. Pax Christi ha dimestichezza con le Marce e i Cammini. Negli anni vari gruppi hanno visitato fraternamente il Congo Rdc, il Senegal, varie situazioni dell’America Centrale e del Centro America. I piedi di Mariella Tapella  hanno portato il suo cuore e testa, tutta se stessa, in Salvador e rimanerci per provocare visite e conoscenze di quel Paese. E ci sono le tante visite compiute ultimamente in Ucraìna!  Ci saranno ora più visite in Africa? Una visita aiuta l’intelligenza solidale della situazione. Occorre anche unire persone e gruppi sensibili.