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Un campo famiglie come antidoto alla guerra? L’esperienza delle famiglie di Pax Christi a Coazze (TO)

Riccardo Paoletto per le famiglie in rete per la pace di Pax Christi

Tra i vari effetti che una guerra produce vi è senza dubbio il senso di impotenza: cosa possiamo fare noi, cosa possiamo farci noi, se nemmeno possono risolvere nulla le diplomazie internazionali né la cronica immobilità dell’ONU? È bene allora che tutti ci cimentiamo nella ricerca di antidoti alla guerra che siano alla nostra portata, per superare questo senso di frustrazione. Ne proporremo uno raccontando l’esperienza vissuta dal 13 al 21 agosto di quest’anno dal gruppo di famiglie di Pax Christi a Forno di Coazze, in val Sangone. Siamo in una valle del Piemonte, non lontano dalla val Susa che si annuncia con l’imponente Sacra di San Michele anche al viaggiatore che transita rapido nell’autostrada verso la Francia: è una terra, quella piemontese, ricca di testimonianze significative di uomini in ricerca della pace, la terra dove è nata l’associazione Libera e l’Arsenale della pace, limitandoci solo alla contemporaneità. Diciamolo subito: il miglior antidoto alla guerra è la comunità , a tutti i livelli. Perché è nata l’Unione Europea (ricordiamo che prima si chiamava Comunità europea)? Per scongiurare il pericolo di nuove guerre fratricide. Dunque, un primo passo per scardinare i meccanismi della guerra è fare comunità tra i diversi. Per il gruppo di cui raccontiamo i nuclei familiari erano molto eterogenei tra loro, così come oggi le tipologie di famiglie sono plurime: famiglie con figli piccoli, con adolescenti, adulti in coppia o individualmente, per un totale di circa quarantacinque persone di provenienze regionali diverse (Puglia, Toscana, Liguria, Veneto, Friuli, Piemonte). Il tema che ha condotto le giornate è stato quello delle Resistenze, a partire da quella storica dei partigiani e della popolazione in val Sangone, per passare alla resistenza ambientale dei vari movimenti che per brevità sintetizziamo nella sigla “No Tav”. Un’intera giornata è stata dedicata anche ad uno dei più significativi punti di passaggio dei migranti ad Oulx, in val Susa, nella struttura denominata “Fraternità Rifugio Massi”: qui ogni giorno trovano accoglienza decine di persone in transito, di provenienza soprattutto dall’Afghanistan, Siria o Pakistan, diretti principalmente ai paesi del nord Europa. Si è ritornati a pensare a questo luogo simbolo, il confine, e veniva in mente il libro autobiografico di Shahram Khosravi “Io sono confine”, all’assurdità di questa invenzione dell’uomo che è il confine tra gli stati, che poi diventa, frontiera, e talora anche fronte. I confini sono diversi a seconda di chi li attraversa: per noi cittadini europei passare per quei luoghi è fare una passeggiata tra i boschi; per gli altri è attraversamento notturno a rischio di respingimento o peggio di morte per congelamento. Per scongiurare questi pericoli a cui sono esposte nei mesi invernale, a 1900 metri di altitudine, persone giovani ma anche famiglie con minori o anziani, si è sviluppato un impegno coordinato tra molte organizzazioni di volontariato locale per dare più sicurezza e dignità a chi si prepara all’attraversamento. Andare sui luoghi, incontrare le persone con il necessario tempo di ascolto, vedere, riflettere per poi avviarsi all’azione prima di tutto scenica con una drammatizzazione partecipativa in una delle ultime serate del campo, è stata la modalità che il gruppo ha voluto provare. Aggiungiamo anche che sono state avvicinate con altrettanta attenzione le specialità culinarie locali, alcune aziende radicate sul territorio e non ultime le bellezze antropiche e naturali dei territori di pertinenza del Parco dell’Orsiera, in compagnia di una guida. Tornando però al punto, perché possiamo affermare con tanta sicurezza che la comunità è vaccino efficace alla guerra? Sulla base dell’esperienza del campo, possiamo affermare che la comunità è avviare processi di inclusione e integrazione, senza minimizzare le differenze o peggio negarle. La guerra fa della differenza l’innesco alla conflittualità, a partire dall’iniziale “noi non siamo come voi!”. Dicendo questo, come non dedurre che anche la stigmatizzazione delle persone in movimento (o migranti) ha tutte le caratteristiche della guerra, tanto che ritornano in auge i confini e i fronti? Avevamo pensato col Primo Levi de “La tregua” che la guerra fosse finita, ma il greco di Salonicco ci ricorda invece che “guerra è sempre”, e intraprendere esperienze di comunità è fare Resistenza alla guerra, con tutta la nobiltà dell’atto del resistere. ​ E ai genitori (chi scrive lo è) va detto che se vogliamo che i nostri figli assaporino la bellezza della pace, è bene avviarli ad esperienze di vita comune in cui debbano confrontarsi con altri, e per un tempo non breve, almeno di alcuni giorni. Come ci ha mostrato l’esperienza comunitaria a Forni di Coazze, gli ingredienti per passare anche pochi giorni di vita comune sono sempre gli stessi: autogestione che implica lavorare insieme per i servizi, ampliare il più possibile la conduzione dei vari momenti, attenzione particolare ai linguaggi e ai modi, perché quelli più adatti ai giovani non coincidono spesso con quelli di chi è più ricco d’anni ed esperienze: ci sono sempre minoranze, anche anagrafiche, da riconoscere e tutelare! È stata, infine, anche una esperienza che si inserisce nel non facile cammino della nostra chiesa contemporanea, con il privilegio di aver avuto come compagni di strada don Nandino e don Renato, per capire che la comunità è il luogo in cui la liturgia fiorisce, più volte accompagnati dalle parole di papa Francesco sulla pace, l’accoglienza, il creato, profeta di quel “principio attivo” antico quanto le Scritture che è il sentirsi chiamare e sentirsi considerati fratelli o sorelle.