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Quali parole usare

Fonti: Raffaele Mantegazza- Scuola e Formazione CISL

…tra qualche giorno gli studenti e le studentesse d’Italia rientreranno a scuola. Entrare in aula è aprirsi al mondo. Nel mondo c’è ancora la guerra…

Una classe scolastica è uno strano ambiente. Non è soltanto un luogo, uno spazio architettonico; è una specie di reagente chimico all’interno del quale i fatti della quotidianità, le emozioni, tutto ciò che proviene dall’esterno subisce strane modifiche, entra in nuovi e inattesi rapporti, scopre relazioni apparentemente sconcertanti. Se l’educazione è socraticamente un portare-fuori, essa è anche un portare-dentro: iniziare un percorso educativo significa disegnare una specie di cerchio magico dentro il quale possono entrare anche il dolore, la paura, la morte perché si sa e si è certi che verranno depotenziati, che non potranno fare del male. Chiudere la porta dell’aula significa allora aprire al mondo, e non tenerlo recluso al di fuori di quelle quattro mura. Ma le mura esistono, e sono rassicuranti: non solo quelle di cemento armato ma quelle che i ragazzi scoprono quando si sentono accolti, quando capiscono che la scuola è uno spazio di tutela e di protezione non solo dei loro corpi ma delle loro idee, della loro privacy, delle loro paure. Parlare di guerra non significa fare la guerra, né legittimarla, anzi probabilmente è proprio questo sottoporre la guerra alle regole della parola e del discorso che ne fa scoprire l’assurdità, la follia. La guerra c’è chi la progetta, chi la fa, chi vi si arricchisce ma c’è anche chi la studia, chi la sottopone alle regole della ragione, chi cerca di capire i motivi che l’hanno scatenata e le alternative per oggi e per il futuro. Dunque, parliamo di guerra ai ragazzi, e anzi riflettiamo su come siamo un po’ ipocriti a porci questa domanda soltanto quando la guerra è veramente scoppiata. Accade un po’ la stessa cosa con la morte: la teniamo lontana, ci illudiamo di poterla controllare, abbiamo paura di parlarne, e poi quando essa ci coglie del tutto impreparati allora ci chiediamo quali parole la possano narrare ai nostri ragazzi. Certo la morte è un fatto naturale mentre la guerra è una scelta umana, e qui sta tutta la differenza: dovremmo sempre parlare di morte ai nostri giovani ma speriamo e crediamo che verrà un mondo nel quale parlare di guerra significhi solo parlare di storia antica, di quella preistoria dell’umano che sarà finalmente invece entrato nell’epoca nel quale “all’uomo un aiuto sia l’uomo” (Brecht). Uno dei fatti più sconcertanti che continuiamo purtroppo a constatare all’interno dell’orizzonte scolastico, per non parlare di quello mediatico, è l’utilizzo del termine “conflitto” come sinonimo della parola “guerra”. Anni di riflessione pedagogica nonviolenta evidentemente non hanno scalfito questa associazione, che è del tutto sbagliata e che serve a perpetuare l’idea che la guerra sia in qualche modo “giusta” se non addirittura “naturale” (magari perché collegata alla “naturale” aggressività dell’uomo, nello specifico del maschio). La guerra è una delle modalità di soluzione del conflitto, anzi in realtà è la modalità di non-soluzione e di allargamento del conflitto. Possiamo addirittura arrivare a dire più radicalmente che la guerra distrugge il conflitto perché cerca di eliminare una delle parti in causa, lo nega nelle sue potenzialità costruttive e vitali e lo rende soltanto un pretesto per spargere morte e distruzione. Ma il conflitto di per sé non è una realtà negativa, anzi è un dato che può portare a crescere. Forse anche il conflitto è un dato storico, forse l’essere umano potrà vivere in una società senza conflitto. In quella “Pace perpetua” di cui parlava Kant; ma oggi confondere i termini è gravissimo. Se due Stati scelgono di risolvere un conflitto attraverso i carri armati sanno perfettamente che c’erano anche altre scelte, diplomatiche, di trattativa, di ridefinizione di termini del conflitto stesso. Non si può più leggere su un libro di storia l’espressione “primo conflitto mondiale”, si tratta di una clamorosa gaffe che va a minare il linguaggio che è la radice del nostro dire il mondo. Per quanto riguarda l’attuale guerra in corso tra Russia e Ucraina al tema del linguaggio si aggiunge una questione ancora più grave, quella della difficoltà per non dire della quasi impossibilità di parlare di una guerra che ha le sue radici perlomeno nel crollo della Unione Sovietica a ragazzi e ragazze che, anche se frequentano la quinta superiore, sono maggiorenni e hanno diritto di voto, non hanno mai studiato la storia del nostro pianeta dopo gli anni 60 dello scorso secolo. Quando è stato fatto un timido tentativo di modificare tutto ciò introducendo lo studio delle 900, illustri giornalisti hanno parlato di ideologia, hanno accusato chi proponeva questa riforma di voler condizionare politicamente i ragazzi. A parte il fatto che si può fare ideologia anche spiegando Augusto, ci si chiede quale idea hanno questi cosiddetti intellettuali dell’insegnamento della storia. La storia si fa sui documenti, sui testi, sulle testimonianze; fare storia non significa entrare in aula e dire che Stalin era buono, ma cercare di avvicinare i ragazzi e le ragazze al metodo storico, alla capacità di lettura di un testo, di interpretazione di un documento, di visione di una testimonianza video. È letteralmente incredibile che si legittimi l’ignoranza ponendole come sola alternativa l’ideologia. E allora viene da pensare che la posizione ideologica sia proprio quella di chi non vuole che i ragazzi studino la storia contemporanea, perché teme che prendano posizione, o peggio ancora perché vuole che prendano posizione irretiti da strumenti di propaganda che nulla hanno a che fare con l’oggettività storica e con la ricostruzione dei fatti. A chi fa comodo una platea di diciottenni del tutto ignari delle dinamiche storiche dell’ultimo secolo? Evidentemente a chi vuole vendere loro pacchetti post ideologici che scavalchino del tutto la capacità critica e la conoscenza dei fatti. Per fortuna i nostri straordinari giovani hanno i loro strumenti e le loro fonti per ricostruire almeno in parte le dinamiche della storia contemporanea, ma non può non essere ulteriormente sottolineato l’enorme vulnus della scuola in questo campo. Certo Benedetto Croce afferma che la storia è sempre storia contemporanea, che qualunque interesse per la storia antica e medievale parte dal bisogno storico concreto del presente, ma ciò non può comportare il dimenticare che anche questo bisogno è storico e nasce nei nostri tempi, tempi che dobbiamo conoscere nelle scuole; anche il nostro bisogno di storia nasce dalla storia, e non è possibile comparare due epoche, la nostra e quella Medioevale, se non se ne conosce una delle due. Altrimenti si arriva a dire che per colpa di Croce non facciamo studiare Tangentopoli perché comunque il bisogno storico è altrettanto esaudito da Federico II. Opporre poi raccontare la guerra, sottraendola al tritacarne mediatico che ce ne mostra immagini decontestualizzate, quasi sempre solo atroci. Occorre raccontare storie positive, storie individuali, storie di persone, ricordando che la guerra viene subita soprattutto dalle persone comuni. Dopo la Seconda Guerra Mondiale il numero delle vittime civili delle guerre è salito al 90%, ed è di alcune di queste persone che dobbiamo provare a raccontare la storia. Creiamo un incrocio tra storia universale e storia individuale, un esercizio che vale sempre per la storia: purtroppo oggi è la guerra che ci pone di fronte questo incontro ma forse raccontando così la guerra possiamo anche imparare che tutta la storia, anche quella positiva, può essere narrata facendo incontrare le grandi dinamiche sovra-individuali e le vicende della singola persona. Ma questa necessaria narrazione individuale della guerra non può essere sostituita alla ricerca delle dinamiche storiche, alla ricostruzione dei fatti e del loro concatenamento. Occorre naturalmente evitare di applicare in modo banale la logica causa-effetto e mostrare che c’erano molte alternative possibili rispetto alla guerra: alternative praticabili e concrete, non solo immaginabili. La guerra non nasce come un frutto naturale ma sempre da scelte umane, magari non scelte solamente individuali, forse scelte iniziate non nel momento dell’invasione ma quando qualcuno si è messo all’interno di un tunnel retorico e politico del quale è rimasto egli stesso prigioniero. Non si tratta ovviamente di confondere le vittime con i carnefici, ma nemmeno di attribuire colpe in maniera del tutto schematica. La nostra storia non è solo storia di guerre, ma le guerre hanno una storia. Raccontare questa storia sperando che finalmente un giorno potremmo considerarla del tutto passata è un servizio alla pace. Che mai come oggi ha bisogno di lucidità, di intelligenza, di appassionata razionalità.