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Da Luca Attanasio all’oblio della colonizzazione

Padre Giuseppe Cavallini è il nuovo direttore di Nigrizia, vissuto per diversi anni in Etiopia. Lo abbiamo intervistato per ricordare alcune date importanti, non solo per l’Africa ma anche per noi, perché segnano le nostre responsabilità storiche e politiche, dalle quali possono nascere nuove strade di relazioni internazionali e tra popoli.

Padre Giuseppe, il 22 febbraio di un anno fa è stato ucciso Luca Attanasio. Ci sono date che ci dicono poco. In questi giorni si consumato ad esempio un massacro ad Addis Abeba. Tu che hai vissuto per diversi anni in Etiopia, cosa rappresentano queste drammatiche “ricorrenze”?

Certamente ci fanno ripensare a tutto quello che significa far conoscere un continente di cui non sappiamo nulla. In Italia in fondo, l’Africa viene menzionata in pochissime circostanze, si dimenticano anniversari come questi, di morte, di distruzione e si dimenticano anche date commemorative di cose belle. Le date sono importanti, ci servono per ricordare e perché non si ripetano in futuro eventi tragici. Luca Attanasio non si può dimenticare. Essendo morto da un solo anno lo ricordiamo bene. È una figura diversa da quelle cui siamo abituati nelle vesti di ambasciatori, formali, distanti. Non dovrebbe essere così perché gli ambasciatori dovrebbero essere tutti vicini alla gente, alla popolazione. Luca è stato così, uno dei pochi ad assumere questo atteggiamento, ambasciatore della gente, non soltanto di una istituzione pubblica che certo lui rappresenta. Questo è stato l’aspetto che più ha colpito tutti. Aveva quasi lo stile di un missionario, indifeso.

Anche su Nigrizia, quello che diciamo spesso è sarebbe necessario avere più spesso figure simili a Luca Attanasio. Lui è l’esempio di come dovrebbe essere portato avanti il servizio, con grande generosità.  E con responsabilità.

Siamo onorati di avere avuto Luca Attanasio come ambasciatore, mentre non lo siamo degli anni del colonialismo. In questi giorni si ricordano massacri gravi. Francesco Filippi intitola un suo ultimo libro: “Noi però gli abbiamo fatto le strade”. A cosa si riferisce?

È un titolo estremamente significativo perché quello che è successo nel febbraio e soprattutto nel maggio del 1937 risuona nelle orecchie di troppe poche persone, come dicevamo. Non vogliamo ricordare, forse per non riconoscere le nostre responsabilità.

Cosa è accaduto nel 1937?

Nel corso di una manifestazione ad Addis Abeba– era appena nato il figlio del re di Italia – organizzata dal gen. Graziani, alcuni giovani (due giovani eritrei della resistenza etiope, Abraham Deboch e Mogus Asghedom, ndr) hanno lanciato contro di lui delle granate uccidendo varie persone e ferendo il gen Graziani. Da questo episodio – segno di una istanza di liberazione da parte della popolazione locale – scaturì una reazione feroce e prolungata del generale che, in un paio di mesi, in tutta Addis Abeba provocò la morte di circa 30mila persone. La repressione che ne seguì non risparmiò nessuno. Pagarono con la vita, accusati di aver appoggiato i facinorosi, anche diverse centinaia di monaci di uno dei monasteri più antichi e riveriti del Paese, Debra Libanòs. Era il 27 maggio 1937. Un massacro senza limiti poi rimosso dalla coscienza e dalla memoria del popolo italiano e questo è un vero problema. Qualche anno fa, quando il presidente Mattarella ha riposto una corona di fiori dinanzi al monumento della vittoria di Addis Abeba e ha ricordato la strage, frutto del colonialismo italiano, qualcuno gli rispose che non “abbiamo fatto solo del male, abbiamo aiutato la gente, abbiamo costruito le strade…”. Non è affatto vero. Il libro di Filippi, grande studioso, lo ricorda bene e ricostruisce con esattezza storica i danni del colonialismo italiano. Ammesso che abbiamo fatto qualche opera edilizia e urbanistica, queste ultime servivano ai militari stessi che dovevano avanzare nella dominazione del Paese. L’idea era questa: popolare l’Etiopia di popolo italiano per rendere quella terra parte, colonia appunto, del “grande impero” sognato da Mussolini.

Grazie per questo ricordo e per queste parole. Tu sei rientrato da poco dall’Etiopia. Cosa sta accadendo in Etiopia? Ci puoi dare un breve aggiornamento?

Sì, sono tornato da pochi mesi dall’Etiopia e sto seguendo con grande attenzione e trepidazione l’evoluzione delle vicende, la mobilitazione generale, l’intensificarsi del conflitto che, come tutte le guerre, porta morti, distruzione e sfollati. Si parla già di mezzo milione di persone affamante nelle zone del nord del Paese. Era già in corso una guerra civile, una sollevazione di gente contro il governo centrale e, come spesso accade in queste circostanze, ha presto coinvolto le potenze esterne. Per vendere armi, per interessi di dominazione della zona perché l’Etiopia, nel Corno d’Africa, è anche il gigante che con i suoi quasi 20 milioni di abitanti condizionerà la storia che arriverà. Certo, c’è qualche flebile speranza che la popolazione possa sopravvivere anche per l’inaugurazione di una grande diga sul Nilo – per la quale c’è una controversia tra Egitto e Sudan – e che porterà grandi risorse idriche al territorio. Però la guerra, questa guerra, sarà presto dimenticata perché tutta la nostra attenzione è rivolta ad Est. Un Est che infiamma e che diverrà devastante se non intervengono le organizzazioni internazionali.

“Non basta essere per la pace ma bisogna essere anche contro la guerra e contro le armi”: papa Francesco ci indica la strada e ci auguriamo che anche le Nazioni Unite possano ascoltarlo e riuscire nel loro necessario ruolo di composizione del conflitto.

 

 

 

La video-intervista è pubblicata nel canale Youtube di Pax Christi Italia: