L’arte della Guerra
Manlio Dinucci
Il generale Scott Miller, comandante delle forze Usa e alleate in Afghanistan, ha annunciato il 25 aprile l’inizio del ritiro delle truppe straniere che, secondo quanto deciso dal presidente Biden, dovrebbe essere ultimato entro l’11 settembre. Gli Usa terminano così la guerra condotta per quasi vent’anni? Per capirlo, occorre anzitutto fare un bilancio dei risultati della guerra.
Il bilancio in vite umane è in gran parte inquantificabile: le «morti dirette» tra i militari Usa ammonterebbero a circa 2.500, e i feriti gravi a oltre 20.000. I contractor (i mercenari degli Usa) uccisi sarebbero circa 4.000, più un numero imprecisato di feriti. Le perdite tra i militari afghani ammonterebbero a circa 60.000. Le morti di civili sono di fatto incalcolabili: secondo le Nazioni Unite, sarebbero state circa 100.000 in soli dieci anni. Impossibile determinare le «morti indirette» per povertà e malattie, provocate dalle conseguenze sociali ed economiche della guerra.
Il bilancio economico è relativamente quantificabile. Per la guerra – documenta il New York Times in base ai dati elaborati dalla Brown University – gli Usa hanno speso oltre 2.000 miliardi di dollari, a cui se ne aggiungono oltre 500 per l’assistenza medica ai veterani. Le operazioni belliche sono costate 1.500 miliardi di dollari, ma l’ammontare esatto resta «opaco». L’addestramento e armamento delle forze governative afghane (oltre 300 mila uomini), sono costati 87 miliardi.
Per «l’aiuto economico e la ricostruzione» sono stati spesi 54 miliardi di dollari, in gran parte sprecati a causa della corruzione e inefficienza, per «costruire ospedali che non hanno curato nessun paziente e scuole che non hanno istruito nessun studente, e che talvolta neppure esistevano». Per la lotta alla droga sono stati spesi 10 miliardi di dollari, col seguente risultato: la superficie coltivata ad oppio è quadruplicata, tanto che è divenuta la principale attività economica dell’Afghanistan, il quale fornisce oggi l’80% dell’oppio prodotto illegalmente nel mondo.
Per finanziare la guerra in Afghanistan, gli Stati uniti si sono pesantemente indebitati: hanno dovuto quindi pagare finora, sempre con denaro pubblico, 500 miliardi di dollari, che nel 2023 saliranno a oltre 600. Inoltre, per i militari Usa che hanno riportato gravi ferite e disabilità nelle guerre in Afghanistan e Iraq, sono stati spesi finora 350 miliardi, che saliranno nei prossimi decenni a 1.000 miliardi, di cui oltre la metà per le conseguenze della guerra in Afghanistan.
Il bilancio politico-militare di questa guerra, che ha versato fiumi di sangue e bruciato enormi risorse, è catastrofico per gli Usa, salvo che per il complesso militare-industriale che ha realizzato con essa enormi profitti. «I talebani, divenuti sempre più forti, controllano o contendono gran parte del paese», scrive il New York Times.
A questo punto, il segretario di Stato Blinken e altri propongono che gli Stati uniti riconoscano ufficialmente e finanzino i talebani, poiché in tal modo «dopo aver preso il potere, parzialmente o pienamente, essi potrebbero governare meno duramente per ottenere il riconoscimento e il sostegno finanziario delle potenze mondiali».
Allo stesso tempo, riporta il New York Times, «il Pentagono, le agenzie spionistiche americane, e gli Alleati Occidentali stanno mettendo a punto piani per dispiegare nella regione una forza meno visibile ma ancora potente, comprendente droni, bombardieri a lungo raggio e reti spionistiche». Secondo l’ordine di Biden, riporta sempre il New York Times, gli Usa stanno ritirando i loro 2.500 soldati, «ma il Pentagono ha attualmente in Afghanistan circa 1.000 militari in più di quelli pubblicamente riconosciuti, appartenenti a forze speciali agli ordini sia del Pentagono che della Cia», cui si aggiungono oltre 16.000 contractor Usa che potrebbero essere usati per addestrare le forze governative afghane.
Scopo ufficiale del nuovo piano strategico è «impedire che l’Afghanistan riemerga quale base terroristica per minacciare gli Stati uniti». Scopo reale resta quello di vent’anni fa: avere una forte presenza militare in quest’area al crocevia tra Medio Oriente, Asia centrale, meridionale e orientale, di primaria importanza strategica soprattutto nei confronti di Russia e Cina.
(il manifesto, 27 aprile 2021)