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ancora leggi razziste dal veneto leghista

Ci risiamo… E nonostante oramai ci sentiamo (purtroppo) “allenate” ad affrontare boutade e decisioni discriminatorie da parte di chi ci governa, l’indignazione, davanti a certe notizie, scatta sempre (e per fortuna) in automatico. Dopo la tassa sulle rimesse degli immigrati (vedi newsletter settimana scorsa) arrivano, nel cattolico e bianco Veneto su cui da marzo dello scorso anno sventola bandiera leghista, tre progetti di legge che prevedono la precedenza assoluta nelle graduatorie d’accesso ai nidi e ai servizi per la prima infanzia, ai buoni scuola e alle case popolari a chi risiede o lavora almeno da 15 anni nella regione.

Facile commentare che si tratta (ancora una volta, l’ennesima) di norme razziste. Scontato ricordare (a chi – arrivati a questo punto – si dubita ne sia a conoscenza) che a tenere alta la dignità e il senso di democrazia in questo Paese è un testo fondamentale, la nostra Carta Costituzionale, che nell’articolo 3 stabilisce un diritto di tutti ad avere «pari dignità sociale», a essere «eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali» (… di residenza!). E che è compito di questa quanto mai bistrattata Repubblica e di coloro che (ahinoi) ci governano «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana».

Alla luce di queste norme che sanciscono un’identità doc, ci viene da chiederci se esiste per i bambini non veneti un «impedimento al pieno sviluppo della personalità umana» maggiore della possibilità di crescere e formarsi tra coetanei, di poter mangiare accanto a pari, di avere un alloggio decoroso dove vivere. Cleophas Adrien Dioma, direttore artistico del Festival Ottobre Africano, all’indomani della strage di Oslo scriveva: «Chi è il nemico? L’altro? Sempre? Forse il nemico siamo noi. Noi, quelli che rifiutiamo di indignarci di fronte ad un mondo che va alla deriva. Noi che non cerchiamo di capire che il male che portiamo in quei paesi lontani poi ci ritorna in faccia. Come sputare in aria… Dobbiamo indignarci della nostra non indignazione. Del nostro silenzio. Della nostra non partecipazione. Dobbiamo fare autocritica. Noi che siamo dall’altra parte della sponda e crediamo di essere salvati. Il nemico è qualche volta in noi. E quello che vediamo a volte nello specchio e che rifiutiamo di guardare. Poi forse non basta neanche più indignarsi…».

da Combonifem, Newsletter 33/11
15 settembre 2011