La carestia sta contribuendo ad aggravare la più grave emergenza umanitaria degli ultimi 60 anni che si poteva prevedere ma soprattutto si poteva evitare.
E’ un film dell’orrore che abbiamo già visto. Volendo, avremmo potuto evitare la replica. La tragedia che sta sconvolgendo il Corno d’Africa e ha assunto dimensioni da catastrofe si poteva evitare. Ampie aree di Somalia, Kenya ed Etiopia sono nella morsa della carestia, un mostro che avanza e adesso minaccia anche Burundi, Gibuti, Sud Sudan e Uganda; in sostanza buona parte delle regioni dei Grandi Laghi e del Corno d’Africa. Undici milioni di persone sono a rischio fame; dei morti non esistono stime attendibili ma le proiezioni del disastro non lasciano scampo. Il commento quasi unanime degli operatori che in questi giorni sono in prima linea è da piaga biblica: giurano di non aver mai visto nulla del genere, che si tratta della peggiore crisi mai affrontata dall’Africa negli ultimi sessant’anni, che anche la carestia che colpì l’Etiopia tra il 1984 e il 1985 e fece un milione di morti non aveva assunto queste dimensioni.
Le immagini, dicevamo: sono quelle di carcasse di animali scheletriti lungo viottoli polverosi, di donne che vagano come impazzite dopo aver lasciato i loro figli nella giungla, di migliaia di disperati che fuggono alla ricerca di un inferno un po’ meno crudele raggiungendo uno dei campi profughi presenti nell’area, che però sono lager. Dabaab, Kenya, un sistema di tre campi per una capienza di 90 mila persone che in questi giorni sono arrivati ad ospitare 380 mila sfollati che entro la fine dell’anno potrebbero diventare quasi mezzo milione. Solo dopo molte pressioni Nairobi ha accettato solo pochi giorni fa di aprire un altro campo, Ifo II, già pronto, costruito nel 2010 dalle Nazioni Unite per una spesa di venti milioni di dollari. Il governo keniano ha fatto di tutto perché restasse chiuso; il motivo è la paura che potesse attrarre ondate di profughi somali e che ai disperati si mescolassero i miliziani filoqaedisti di al Shabaab. In Etiopia, il flusso medio si aggirava sulle cinquemila unità ogni mese ma nelle prime due settimane di giugno sono arrivate trentamila persona dalla Somalia, che resta l’epicentro del dramma. Qui, la situazione è così drammatica che ad una fuga verso sud, verso il Kenya, se ne registra anche una verso la capitale Mogadiscio, verso il campo di Badbaado, a 400 metri dalla linea del fronte: anche la guerra è preferibile alla fame.
Tutto si poteva prevedere e infatti tutto era stato previsto. La crisi viene da lontano, poteva essere monitorata ed evitata. Una carestia non è un terremoto che arriva all’improvviso: i livelli di precipitazioni dall’inizio dell’anno, molto bassi in Etiopia e Kenya, quasi nulli in Somalia negli ultimi due anni, erano noti. Sono molte le Ong che negli ultimi mesi hanno lanciato un allarme. In Etiopia, il governo distribuisce razioni alimentari da febbraio. Ma la carestia è solo l’ultimo ingrediente di un cocktail micidiale preparato dall’uomo. I cambiamenti climatici stanno giocando un ruolo importante: le aree coltivabili e quelle adatte al pascolo, ad esempio, vanno riducendosi progressivamente. Notano, gli esperti, che un tempo i cicli climatici dell’area vedevano l’avvento di una carestia ogni dieci anni, intervalli che in meno di vent’anni si sono ridotti a due-tre anni. La terra che non viene persa per l’avanzamento di fasce desertiche, spesso sparisce a causa del land grabbing, la vendita a fondi e multinazionali di enormi porzioni di territorio. Ci sono poi la forte urbanizzazione che sta cambiando il volto del continente e infine la speculazione che ha portato ad una notevole crescita dei prezzi dei prodotti alimentari e ha escluso dall’accesso al mercato larghi segmenti della popolazione. In Somalia l’emergenza era scoppiata prima ancora dell’arrivo della carestia.
Infine, la guerra. Quella che da vent’anni assedia Mogadiscio, dopo aver provocato una secessione de facto del sud e del centro della Somalia, in mano a formazioni islamiche che vogliono rovesciare il debole governo provvisorio somalo. Quella che si è spenta solo nel 2005 tra Sudan e il da poco indipendente Sud Sudan ma che cova ancora sotto la cenere lungo la problematica frontiera tra i due Paesi. Conflitti che causano centinaia di migliaia di sfollati, paralizzano economie e società, portano distruzione e lasciano intere popolazioni in uno stato di forte vulnerabilità. Non va poi dimenticata la miopia della comunità internazionale e la rigidità della macchina degli aiuti: nonostante quest’anno si sia registrato un aumento della cifra destinata agli interventi umanitari, per un totale pari a 16,7 miliardi di dollari, la quota destinata alla prevenzione dei disastri resta sempre molto bassa: 75 centesimi ogni 100 dollari raccolti, secondo l’analisi di Development Initiatives. I meccanismi di intervento sono molto rigidi e tendono a ripetersi secondo processi predefiniti. E il risultato è che quella comunità internazionale che non ha trovato 800 milioni di dollari quando il disastro si poteva evitare, adesso dovrà sborsare 1,6 miliardi, cifra chiesta come sforzo supplementare dalle Nazioni Unite ai principali donatori per superare l’emergenza.
Peace Reporter 22/07/2011 Alberto Tundo