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Mediterraneo rotta di pace? Giornata ONU per la Palestina – Napoli 28 novembre 2015

Giornata ONU per la Palestina Napoli, Castel Dell'Ovo, 28 novembre 2015

Giornata ONU per la Palestina
Napoli, Castel Dell’Ovo, 28 novembre 2015

Si è svolta il 28 novembre scorso a Napoli, a Castel Dell’Ovo, la Giornata ONU per i diritti dei Palestinesi.
E’ stato una giornata intensa, ricca di contenuti e di analisi anche inedite sulla irrisolta (e apparentemente irrisolvibile) questione palestinese.
Significative parole sono giunte anche dagli interventi di due illustri residenti a Napoli: Alex Zanotelli e il sindaco De Magistris.
Di seguito una sintesi delle relazioni, guidate e moderate da Norberto Julini e don Nandino Capovilla.

Vedi documento finale di Pax Christi e immagini dell’evento su:

SUL MEDITERRANEO CESSINO I VENTI DI GUERRA E SI APRA UNA ROTTA DI PACE

Francesco Chiodelli, del Gran Sasso Science Institute, L’Aquila, ha illustrato la dearabizzazione e la giudaizzazione di Gerusalemme Est, cercando di riportare solo fatti e non giudizi ideologici. Oggi Gerusalemme non è più divisibile, non c’è più un Est e un Ovest e la separazione di Gerusalemme Est secondo l’indicazione ONU è ormai solo fittizia.
Nel 1967 gli abitanti di Gerusalemme erano circa 200.000, dei quali 75% ebrei e 25% arabi, e la sua divisione era precisa. Nel 2013 contava circa 800.000 abitanti, con una vasta espansione delle aree ebraiche verso est. Ciononostante, gli arabi sono cresciuti, in proporzione, fino al 37% della popolazione (63% gli ebrei). L’indivisibilità è stata concretizzata da Israele con l’assegnazione di 50.000 unità abitative a Gerusalemme Est solo per gli ebrei. Avvengono espropriazioni per pubblica necessità, ma solo a favore degli ebrei, mentre si impedisce la costruzione di case agli arabi. In altre parole, non avendo raggiunto il risultato demograficamente (la percentuale degli arabi è aumentata), si pongono ostacoli agli arabi che vi abitano. Per esempio, un arabo che abbandona Gerusalemme non ha più il diritto di ritornarvi. Dal canto loro gli arabi, non potendo fare altrimenti, costruiscono case abusive, che sono però ad altissimo rischio di demolizione.
Una proiezione della situazione per il 2020 prevede, nonostante l’incessante espansione ebraica, una popolazione araba del 40% (anche se in uno spazio sempre più ristretto…) e quella ebrea del 60%. Scatta allora l’ultima risorsa per ottenere il risultato voluto da Israele. Sono in programma altre 30.000 case per gli ebrei e verrà costruito un muro che traccia i nuovi confini di Gerusalemme. Il suo perimetro, però, includerà le case ebraiche a est, ma escluderà tre quartieri palestinesi che di fatto rimarranno fuori da Gerusalemme. In tal modo a Gerusalemme vi sarà un 72% di ebrei e un 28% di arabi.

Baha Nilo ha parlato della continua colonizzazione da Gerusalemme Est alla Cisgiordania. Sono cinque i metodi attraverso i quali Israele controlla i Palestinesi.
Il primo è la dislocazione. Il 20% della popolazione dello Stato di Israele è palestinese. Ma questo costituisce solo il 40% dei Palestinesi, perché il rimanente 60% risiede fuori dalla Palestina.
Il secondo è la discriminazione. I palestinesi sono discriminati sotto qualsiasi aspetto del diritto. Ebrei e palestinesi hanno diritti ben diversi. Un esempio per tutti. Un ebreo può commemorare la shoà (che è avvenuta lontano), mentre un palestinese non può commemorare la nakba (che è avvenuta proprio lì).
Il terzo è la trasformazione di Gerusalemme. Tutte le misure di sicurezza, gli apparati di protezione e quant’altro sono sfacciatamente a favore degli ebrei. Se un ebreo commette un crimine nei confronti di un palestinese, praticamente non succede niente. Se un palestinese commette un crimine nei confronti di un ebreo, scatta l’arresto e la demolizione della casa. Un palestinese che abbia in precedenza risieduto a Gerusalemme non ha diritto a ritornarvi, un ebreo invece sì.
Il quarto metodo riguarda la Cisgiordania. La maggior parte della popolazione palestinese (2,8 milioni) è costretta ad abitare in aree molto ristrette e sovraffollate.
Il quinto metodo riguarda le strade e le comunicazioni. I Palestinesi di Gaza sono bloccati là, recintati. I soldati israeliani sono autorizzati a uccidere chi oltrepassa i confini della Striscia. Ogni aspetto della vita di Gaza è condizionato dagli Israeliani (cibo, acqua, ecc.). I Palestinesi di zone diverse difficilmente possono incontrarsi. Chi risiede a Gaza non può recarsi in Cisgiordania e viceversa.
Così il controllo del governo israeliano sui Palestinesi è praticamente totale. Autorità sudafricane in visita alla Palestina hanno commentato che la situazione è peggio del Sudafrica al tempo dell’apartheid. Lo scopo dell’apartheid israeliano nei confronti dei Palestinesi è quello di eliminarli, di scacciarli, obiettivo che non esisteva nell’apartheid sudafricano. Con questo ritmo l’intero processo sarà portato a termine entro poche decine di anni.

Marina Calvino, rappresentante dell’UNRWA (United Nations for Relief and Work Agency), ha sintetizzato in cifre la situazione dei rifugiati assistiti da questa Agenzia ONU.
L’UNRWA esiste dal 1948, quando allora aveva un mandato “temporaneo” per il “soccorso” e il “lavoro”, alla ricerca di una giusta soluzione per 700.000 rifugiati. Tale mandato si è poi trasformato da assistenziale a cooperazione allo sviluppo e si è esteso anche ai paesi che ospitano gli attuali 5 milioni di rifugiati. Vi è ormai purtroppo una continuità della “non giusta” soluzione e una evidente crisi dell’Agenzia stessa. Sono seguite poi alcune cifre del numero dei rifugiati nei vari campi e nelle varie aree, con l’illustrazione dei fattori maggiormente critici. In queste decine di anni nei campi profughi l’insicurezza alimentare è aumentata dal 19% al 29% della popolazione. La disoccupazione raggiunge il 23% nei campi profughi, contro il 18% nelle aree urbane (Gaza esclusa). Il numero medio mensile di minori palestinesi in carcere è 185, mentre quello degli adulti è 563. Particolarmente critica la situazione nel campo di Shufat, campo profughi a Gerusalemme Est dal 1965, che dà diritto alla carta d’identità di Gerusalemme: sovraffollamento, povertà, disoccupazione, violenza, servizi di base inesistenti. A Gaza l’approvvigionamento alimentare è assicurato per 830.000 persone, a fronte di una popolazione più che doppia, e la disoccupazione tocca il 42%. Le famiglie senza fondi per ricostruire le case distrutte dai bombardamenti sono 47.000. Le stesse installazioni UNRWA sono state pesantemente danneggiate dal conflitto (scuole, magazzini, centri di salute).

Il presidente di Pax Christi, mons. Giovanni Ricchiuti, la cui testimonianza personale su Gaza è stata molto apprezzata, si è appellato alla sensibilità dei giovani e alla necessità di una corretta informazione. Nelle sue 48 ore a Gaza ha camminato per le strade tra macerie e palazzi distrutti, in uno scenario che avrebbe potuto ricordare la seconda guerra mondiale. Toccanti i suoi incontri con alcune persone. Un padre di famiglia aveva appena costruito una casa per il figlio che si sarebbe sposato, ma è andata distrutta sotto un bombardamento. Ciononostante, come segno di speranza e di volontà di ricominciare, era riuscito a ricavare una stanza che avrebbe messo a disposizione del figlio. Ad alcuni pescatori ha chiesto se coltivassero sentimenti di rivalsa per quello che era accaduto. Davanti alle loro attrezzature e ai loro magazzini distrutti, hanno risposto: “rancore sì, ma non vendetta. Noi comunque rimarremo qui, non ce ne andiamo. Denunciate quello che avete visto”. Il pericolo più grave resta la coltre di silenzio, di complicità, di omertà. Da qui, l’invito a non tacere e, agli operatori di pace, di reclamare maggiore giustizia e di aumentare gli sforzi di solidarietà.

Martina Luisi, del PCRF (Palestine Children’s Relief Fund), ha illustrato la situazione sanitaria a Gaza. Questa organizzazione, statunitense, fondata nel 1991, fornisce assistenza ai bambini palestinesi e raccoglie oggi 30 associazioni. Conta sei uffici in Cisgiordania e tre a Gaza. Le attività del PCRF comprendono: ricoveri umanitari all’estero; medici volontari in missione; formazione di personale sanitario palestinese; fornitura di equipaggiamento e strutture sanitarie. Dopo aver illustrato in cifre alcuni aspetti di queste attività (tra cui una cardiochirurgia pediatrica molto avviata), si è riferita al Rapporto Annuale sulla Salute 2014, riguardante Gaza, dove in 40 Kmq vivono circa 2 milioni di persone, dei quali il 68% con lo status di “rifugiati” (a fronte del 27% in Cisgiordania). Dopo aver accennato alle malattie più comuni, ha sottolineato le inadeguate cure prenatali, responsabili di un’aumentata mortalità infantile (circa il 20-22 per mille). Bisogna però tenere conto del fatto che nel 1960 la mortalità infantile era addirittura del 127 per mille. I soggetti che erogano servizi di salute a Gaza sono cinque: il Ministero della Salute palestinese, l’UNRWA, le ONG, il PMMS (Palestinian Military Medical Service) e la sanità privata. L’Operazione “Margine Protettivo” del 2014, oltre alle vittime già riportate da altre fonti, ha distrutto 17 ospedali e 50 centri di primo intervento. Inoltre, 10 ospedali e 44 ambulatori sono stati costretti a chiudere. Dopo l’Operazione “Margine Protettivo” il PCRF ha faticosamente ripreso le sue varie attività.

Impressionante è stata la testimonianza di Suor Alicia Vacas, missionaria comboniana, che ci ha parlato delle attività di “Physicians for Human Rights”. Ci ha partecipato da un lato la sua amarezza perché viene usata anche la salute per opprimere, e dall’altro la sua speranza per l’incontro e la continua attività dei costruttori di pace. Un’organizzazione per il Diritto alla Salute dei Palestinesi, oltre a svolgere assistenza, denuncia le violazioni dei diritti umani nell’ambito della salute. E così, in occasione sia di “Piombo Fuso” (2008-2009), che di “Margine Protettivo” (2014), sono state organizzate delle missioni, a cui lei ha partecipato come infermiera, per denunciare tali violazioni. Ha potuto quindi osservare vari tipi di ferite, in relazione alle armi usate, come per esempio il fosforo bianco. Sono falliti i preavvisi dell’esercito israeliano per l’evacuazione dei civili. Strutture che hanno ricevuto preavvisi non sono state colpite e viceversa altre, che non sono state avvisate, sono state invece colpite. Inoltre, all’avviso di evacuazione non seguivano informazioni sui luoghi dove rifugiarsi. Il tutto avveniva, per entrambi gli attacchi, in una confusione enorme e tra il panico generale. Si sono verificati attacchi diretti, intenzionali, contro centri medici, come l’istituto di riabilitazione. Un altro ospedale, in cui vi era una delegazione dell’Unicef, è stato bombardato. Alcuni infermieri e medici sono rimasti uccisi. E’ stata messa in atto anche la strategia “del doppio colpo”. Dopo il bombardamento di un obiettivo, all’accorrere dei soccorsi lo stesso posto veniva bombardato una seconda volta, appositamente. Di tre bombardamenti a tre quartieri particolarmente colpiti, due potevano avere una qualche spiegazione (non giustificazione) militare, ma il terzo, sul quartiere di Cusah, non aveva alcuna motivazione. Con coraggio 7.000 persone sono uscite tutte insieme sulla strada principale con bandiere bianche, ma il 27 luglio 2014 sono state ugualmente attaccate e ci sono stati tanti morti. Molte famiglie hanno perso fino a 10-15 membri del proprio nucleo familiare. Un residuo messaggio di speranza è venuto dal miracoloso salvataggio di una bambina.

La giornalista del “Manifesto” Chiara Cruciati ha delineato un’analisi politica dell’isolamento di Gaza nel quadro mediorientale. Da 15 anni assistiamo ad uno spezzettamento del mondo arabo e a nuove forme di colonizzazione. Invece, la Palestina è parte integrante di tutto ciò che avviene in medioriente. Un altro isolamento politico, geografico e anche mediatico è quello di Gaza. Gaza viene vissuta come a se stante e rappresenta il modello che si vorrebbe applicare anche in Cisgiordania. Non c’è ricostruzione nella Striscia, nonostante lo stanziamento di 5 miliardi di dollari a questo scopo, stabilito al Cairo nell’ottobre 2014. A Gaza governa Hamas, che è in piena crisi, anche finanziaria, dalla deportazione del leader egiziano Morsi. Molta popolarità è stata persa anche perché Hamas è stato più attento ai Fratelli Musulmani (all’esterno) che non ai problemi interni. Poi è venuto il colpo di grazia dall’Egitto e Hamas è stato costretto a firmare il “cessate il fuoco”, in cambio di niente. La perdita di controllo sul territorio è un’ulteriore aggravante. I lanci di razzi verso Israele non sono più controllati da Hamas. Con l’ultimo alleato, la Russia, cerca contatti nel tentativo di risollevarsi. E’ necessario fare rientrare Gaza nell’ambito della grande questione mediorientale, da cui è stata artificiosamente separata.

Il giornalista del “Manifesto” Michele Giorgio ha sviluppato un’inedita e acuta analisi del ruolo del nazionalismo religioso ebraico e del messianesimo evangelista cristiano nel perpetuare il conflitto israelo-palestinese.
E’ in corso in Israele una rivoluzione politica, perché la corrente nazionalista ebrea negli ultimi anni ha avuto il sopravvento. Oggi il governo ha al suo interno ultranazionalisti e coloni oltranzisti ultraradicali. A Venezia è stato presentato un film (che ci ha consigliato di vedere) intitolato “Rabbini, ultimo giorno”, in cui il regista racconta che dall’assassinio di Rabin (ad opera di un ultranazionalista), questa fazione politica è oggi al potere, con dei ministri. La vice-ministra degli esteri, esponente di questa corrente (da notare che il ministro degli esteri, ad interim, è lo stesso Netanyhau), ha incaricato gli ambasciatori israeliani negli altri stati di andare agli incontri diplomatici con la bibbia. La bibbia diventa così una sorta di trattato internazionale, da cui Israele trae i propri diritti. Le ONG che si occupano di diritti umani sono considerate “spie del nemico” e sono sempre più messe in difficoltà. L’opinione occidentale ed europea è già condizionata da questa opinione. Ragionamenti simili valgono per il concetto di “sicurezza” secondo la mentalità israeliana e su questo piano l’opinione pubblica occidentale è sempre più vicina a quella israeliana.
Un altro fenomeno rilevante è quello delle sette evangelicali nordamericane, dell’America latina e dell’Asia. Esse sostengono una visione di “realizzazione della profezia”, con la venuta del Messia. In questo quadro, acriticamente appoggiano Israele. Da ben 30 anni esiste l’Ambasciata Cristiana Internazionale (ICE), che esprime questa idea e svolge manifestazioni a Gerusalemme. Israele la accoglie a braccia aperte (almeno finora). Questa organizzazione conta oggi 20 sedi nel mondo e una in Italia. In questi giorni, a Caserta, all’hotel Vanvitelli, si svolge la riunione dei Cristiani Messianici. Ogni anno ha luogo a Gerusalemme una marcia di migliaia di persone, cristiane, provenienti da ogni parte del mondo, che invitano Israele a ricostruire il Tempio e a non cedere ad alcun compromesso con i Palestinesi. Sono state proiettate anche alcune foto di tale manifestazione. Per concludere, purtroppo la sinistra italiana di oggi accetta sempre più la “narrazione” israeliana della situazione e finisce quindi con il sostenere la destra israeliana.

Il rabbino Jeremy Milgrom, membro dei “Rabbini per i Diritti Umani” ha svolto il tema “la società israeliana e il riconoscimento della Palestina”. Fino a 140 anni fa ben pochi ebrei vivevano in Palestina. Nel secolo XIX prende avvio il movimento sionista, che porta avanti l’idea di andare in “una terra senza popolo”. In una prima fase gli ebrei provano una sorta di attrazione per la popolazione locale, pur mantenendo le distanze. Fino agli anni ’40 del secolo scorso gli ebrei si potevano distinguere in due tipi di popolazione. Una era l’antica popolazione ebraica, che era stata sempre vicina ai Palestinesi, senza aspirazioni nazionalistiche e naturalmente molto religiosa. Non era certamente sionista, anzi in parte era anti-sionista. L’altra, invece, era sionista, non particolarmente religiosa, aspirava a una nuova società e a un nuovo stato. Agli occhi della resistenza palestinese non c’era però differenza tra i due gruppi. Il massacro di Hebron del 1929 segna il punto di partenza della situazione di oggi. Allora, molti ebrei erano sionisti, ma altri non lo erano.
Saper distinguere i vari gruppi ebrei in seno alla società israeliana è molto importante, perché c’è una forte disomogeneità tra di essi. Dei cittadini israeliani, circa l’80% sono ebrei e il 20% sono arabi israeliani. Precisiamo subito che gli arabi israeliani non si identificano come israeliani, parliamo quindi solo degli ebrei veri e propri. Facilmente identificabili sono gli “ultraortodossi”, per gli abiti neri, i cappelli, gli orecchini. Le loro donne sposate hanno il capo coperto. I “nazionalisti religiosi” vestono all’occidentale, in modo vario, e in genere hanno in testa la kippa. Altri gruppi indistinguibili sono gli ebrei russi, più di un milione, che parlano russo ma sono assimilabili agli ebrei, e gli ebrei provenienti dai paesi arabi. C’è infine la cosiddetta élite di Tel Aviv, una sorta di “chic” israeliani provenienti dai paesi europei, che per 30 anni, da Bengurion in poi, sono stati sostanzialmente socialisti. Purtroppo il sionismo ha fatto deviare gli ebrei da una religione a una forma di nazionalismo. Israele come stato ebraico fa porre la domanda: cosa c’è di ebraico nello stato israeliano? Il sogno di uno stato ebraico esclude i Palestinesi proprio perché non ebrei? Ma, proprio perché ebrei, dovremmo essere tenuti ad accogliere e a rispettare gli altri. Nel 1948 i fondatori di Israele erano socialisti, disposti a convivere con i Palestinesi con la soluzione dei due stati. C’è stata una palese contraddizione, perché invece Israele ha cacciato i Palestinesi, facendoli diventare dei rifugiati. I coloni di oggi osservano infatti che quello che è stato fatto nel 1948 è stato molto peggio della situazione attuale. Tale dibattito era impensabile fino a 40 anni fa. Adesso si dice addirittura che sia stato un peccato non aver completato la nakba allora, perché i Palestinesi, così, sono rimasti. Inoltre, quando è chiamata in causa, la Corte Suprema appoggia i nazionalisti, a scapito dei diritti umani. Infine, per quanto riguarda la problematica dell’opzione due stati, o uno stato solo, certamente i gruppi pacifisti e gli attivisti pro Palestina sostengono l’idea dei due stati, per assegnare ai Palestinesi la Cisgiordania come stato. Dal punto di vista israeliano, d’altra parte, se si concepisce lo stato israeliano come uno stato democratico, gli ebrei non potrebbero accettare un solo stato, perché sarebbero sopravanzati numericamente dai Palestinesi.

Vincenzo Pezzino
Punto Pace Pax Christi di Catania