Carissimi,
ve lo confesso: è stata una scoperta pure per me.
Non avevo mai dato troppo peso, infatti, a quella espressione pronunciata da Gesù dopo che ebbe finito di lavare i piedi ai discepoli: «anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri».
Gli uni gli altri. A vicenda, cioè. Scambievolmente.
Questo vuoI dire che la prima attenzione, non tanto in ordine di tempo quanto in ordine di logica, dobbiamo esprimerla all’interno delle nostre comunità, servendo i fratelli e lasciandoci servire da loro.
Spendersi per i poveri, va bene.
Abilitarsi come Chiesa a lavare i piedi di coloro che sono esclusi da ogni sistema di sicurezza e che sono emarginati da tutti i banchetti della vita, va meglio.
Ma prima ancora dei marocchini, degli handicappati, dei barboni, degli oppressi, di coloro che ordinariamente stazionano fuori del cenacolo, ci sono coloro che condividono con noi la casa, la mensa, il tempio.
Solo quando hanno asciugato le caviglie dei fratelli, le nostre mani potranno fare miracoli sui polpacci degli altri senza graffiarli. E solo quando sono stati lavati da una mano amica, i nostri calcagni potranno muoversi alla ricerca degli ultimi senza stancarsi.
Della lavanda dei piedi, in altri termini, dobbiamo recuperare il valore della reciprocità. Che è l’insegnamento più forte nascosto in quel gesto di Gesù.
Finora forse ne abbiamo fatto un po’ troppo un esercizio eroico di conquista. L’abbiamo scambiato per uno stile d’accaparramento di benevolenze mondane. L’abbiamo inteso come un espediente missionario capace, se non di provocare la fede, almeno di vincolare le emozioni dei cosiddetti lontani.
Un bel gesto, insomma. Di quelli che fanno immagine. Soprattutto per quel gioco dei contrasti. Perché quanto più Gesù sprofonda fino a terra, tanto più emerge l’altezza del suo messaggio.
Invece, con quella frase «gli uni gli altri», espressa nel testo greco da un inequivocabile pronome reciproco, siamo chiamati a concludere che la brocca, catino e asciugatoio, prima che essere articoli di esportazione, vanno adoperati all’interno del cenacolo. Non vanno collocati fuori della chiesa, quasi per essere offerti come ferri del mestiere a coloro che, terminate le loro liturgie, escono nel mondo.
No. Non c’è un’eucarestia dentro, e una lavanda dei piedi fuori. L’una e l’altra sono operazioni complementari da esprimere ambedue negli spazi dove i discepoli di Cristo si radunano e vivono. Fuori, semmai, c’è da portare la logica di quei doni: frutti che maturano in pienezza solo al calore della serra evangelica.
In conclusione, brocca, catino e asciugatoio devono divenire arredi da risistemare al centro di ogni esperienza comunitaria. Con la speranza che non rimangano suppellettili semplicemente ornamentali. Che cosa significa tutto questo per noi?
Che, ad esempio, un sacerdote difficilmente potrà essere portatore di annunci credibili se, nell’ambito del presbiterio, non è disposto a lavare i piedi di tutti gli altri, e a lasciarsi lavare i suoi da ognuno dei confratelli. Anzi, c’è di più o di peggio. E l’intero presbiterio che manca di credibilità, se nel suo grembo serpeggia il rifiuto, o il riserbo sdegnoso, o il fastidio, a tal punto che i piedi ognuno se li deve lavare per conto suo.
Non si tratta di essere mondi, cioè puri. Anche gli apostoli dell’ultima cena lo erano: «voi siete mondi» aveva detto Gesù. Il problema è essere servi. Perché gli uomini accettano il messaggio di Cristo, non tanto da chi ha sperimentato l’ascetica della purezza, quanto da chi ha vissuto le tribolazioni del servizio.
Altro che gesto sentimentale, quello di Gesù, da incorniciare magari nell’album dei buoni esempi!
La logica della lavanda dei piedi è eversiva. A tal punto, che grida all’ipocrisia quando, in una associazione ecclesiale lacerata dalle risse e dilaniata dalle rivalità, si pretende di organizzare il pediluvio alla gente.
Ma a chi andiamo a raccontarla!
Il servizio agli ultimi che stanno fuori non purifica nessuno, quando si salta il passaggio obbligato del servizio agli ultimi che stanno dentro. Anzi si ritorce come condanna perfino su chi crede che gli basti la riconciliazione procuratagli dai sacramenti, quando poi snobba quella grande riconciliazione con la vita che si raggiunge lavando i piedi del prossimo più prossimo.
Gli uni gli altri. A partire dalle famiglie. Che non possono dirsi cristiane se non assumono la logica della reciprocità.
Perché, se il marito smania di lavare i piedi ai tossici, la moglie si vanta di servire gli anziani, e la figlia maggiore fa ferro e fuoco per andare nel terzo mondo come volontaria, ma poi tutti e tre non si guardano in faccia quando stanno in casa, la loro è soltanto una controtestimonianza penosa. Che danneggia perfino i destinatari di un servizio apparentemente così generoso.
Ce n’è abbastanza perché la ripetizione rituale della lavanda dei piedi che, tra la commozione generale, celebreremo la sera del giovedì santo, ci metta nell’animo una voglia struggente di servizio, di accoglienza, e di pace.
Verso tutti. A partire dai più vicini.
E ci mandi in crisi, più che mandarci in estasi.
Perché, visto che siamo così lenti a convertirci, quella brocca è esposta al sacrilegio non meno della stessa eucarestia.
Vi saluto
don Tonino Bello
19 marzo 1989