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“Siamo alla mercé di chiunque”: i subsahariani di fronte alla violenza razzista in Tunisia

Inkyfada da anni si occupa di un tema tabù in Tunisia: il razzismo verso i subsahariani.  In questo reportage, le testimonianze della comunità riguardo a quanto sta succedendo nel Paese.

Bisogna attendere qualche minuto prima che Melissa venga ad aprire la porta. Anche se è al corrente della nostra visita, la ragazza ha un’aria impaurita. Non può smettere di aver timore di una visita della polizia o, peggio, delle persone che vogliono aggredirla. Melissa è ivoriana. Dal comunicato della Presidenza, lei e suo marito vivono nella paura: non hanno lasciato la loro casa da mercoledì scorso. La coppia trascorre la sua giornata nel salone, le tende tirate. Il loro figlio, un bimbo di tre anni, non va più all’asilo. “Normalmente, l’educatrice mi chiama se non viene, per verificare se è malato o se è successo qualcosa – commenta Melissa -. Ora sono tre giorni che non è andato e non mi ha contattata. Sa quello che sta accadendo”. 

La maggior parte dei loro vicini sono nella stessa situazione. Da qualche mese, una campagna razzista verso i subsahariani in Tunisia sta prendendo sempre più piede. Lo stesso presidente sottoscrive queste teorie razziste e complottiste e ha puntato il dito contro i subsahariani, accusandosi di essere delle “orde” e che l’immigrazione subsahariana è “un’impresa criminale” il cui obiettivo sarebbe quello di “cambiare la composizione demografica della Tunisia”. Da lì, i casi di aggressione e d’espulsione sono esplosi, e migliaia di subsahariani temono per la loro vita e il loro futuro in Tunisia.

Nello stesso quartiere di Melissa, Anna, una giovane donna ivoriana, accoglie i suoi amici Issa e Pierre. Quest’ultimo ha appena lasciato casa sua su richiesta della proprietaria. In un angolo del salone, qualche borsa che contiene i suoi oggetti personali. Altri non hanno la fortuna di avere delle persone su cui contare. Da due giorni, Mariam e suo marito dormono sotto un ponte. Qualche sacchetto di plastica riempito dei loro oggetti personali sono impilati davanti l’ambasciata della Costa d’Avorio. “E’ tutto ciò che abbiamo” si rammarica Mariam. La coppia è stata sbattuta fuori casa dal proprietario, che aveva paura di ritorsioni per aver ospitato dei subsahariani. “Tutti hanno paura” confida Patricia Gnahoré, giornalista a RLF (Radio Libera Francofona), in Tunisia da quattro anni. Secondo la reporter, gli sfratti sono cominciate dal 9 febbraio, quando dei messaggi allarmisti hanno cominciato a propagarsi sui social: se le persone ospitano dei subsahariani senza documenti, i proprietari sarebbero soggetti a multe o potrebbero essere messi in prigione. “Quindi tutti i proprietari hanno cominciato a far sloggiare le persone in due settimane” continua Patricia. “Delle persone con cui si andava d’accordo, comunicano da un giorno all’altro di lasciare la loro casa”.

Queste due ultime settimane, Patrizia ha ricevuto diverse richieste di aiuto, di fronte alla brusca ondata di sfratti della comunità subsahariana. “I proprietari aprono le porte e mettono fuori le valige. Quelli più tolleranti vengono a parlare, dicendo semplicemente di lasciare la casa” sospira.  Accoglie queste persone a casa sua e cerca di negoziare con i proprietari per ritardare lo sfratto, “fino alla fine del mese, il tempo di organizzarsi e trovare un’alternativa” spera.  Anna al momento può restare in casa sua e accogliere i suoi amici in difficoltà. “La proprietaria non mi ha fatto dei problemi. Ma bisogna pagare l’affitto e le fatture” si preoccupa la donna. Qualche ora più tardi, la proprietaria la contatta: esige che la fattura dell’elettricità sia pagata entro tre giorni, pena lo sfratto. Grazie a degli amici e a una rete associativa, Anna può sistemare questi pagamenti. “Ma che succede a chi non ha aiuti?” S’interroga. 

Tutte le persone intervistate da Inkyfada raccontano di aver perso il loro lavoro. Normalmente, Anna lavora come donna delle pulizie, ma non osa più uscire di casa, viste le aggressioni e gli arresti. Il suo coinquilino, Dylan, è stato licenziato dal ristorante dove lavorava, “per il momento”. Tra i suoi amici, è l’unico a non essere rimasto in casa quel giorno: è andato dal suo vecchio datore di lavoro, sperando di recuperare il suo salario. “I suoi colleghi sono stati arrestati sul luogo di lavoro” racconta Anna. Fortunatamente, Dylan non era lì all’arrivo della polizia. Il datore di lavoro l’ha chiamato dicendo di non venire a lavorare “aspettando che la situazione si calmi”. 

Samia, un’altra donna ivoriana che vive da dieci anni in Tunisia, testimonia di aver assistito all’arresto di un suo collega: “I poliziotti sono arrivati, l’hanno visto e l’hanno arrestato, così”. Per miracolo, gli agenti sembrano non essersi accorti di Samia, che è restata ferma in un angolo, scioccata dall’accaduto. E’ rientrata subito a casa, con sua figlia, chiudendo la porta a chiave. Sua figlia non è più andata a scuola da quel momento. “Eppure, è nata qui e parla tunisino” commenta Samia. 

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Il 25 febbraio, tre giorni dopo il comunicato presidenziale, il ministro degli Affari esteri della migrazione e dei tunisini, Nabil Ammar, ha affermato che la Tunisia lottava soprattutto contro “la migrazione irregolare, che causa dei problemi in tutti i Paesi”. Ma nel caso della Tunisia, questa distinzione tra migrazione regolare e irregolare è “artificiale”, argomenta Camille Cassarini, ricercatrice sulle migrazioni africane in Tunisia all’università di Genova. “Lo stato tunisino non ha mai messo in campo delle condizioni giuridiche, tecniche e amministrative per fornire dei permessi di soggiorno alle persone originarie dei Paesi d’Africa subsahariana. E’ una realtà esistente dall’epoca di Ben Ali. Non siamo di fronte a delle persone che si mettono in una situazione di irregolarità, siamo di fronte a uno Stato che non regolarizza”. Camille Cassarini aggiunge che queste pratiche sono riservate soprattutto alle persone subsahariane, e che le persone europee hanno meno di queste problematiche. “Anche ai subsahariani che hanno tutti i documenti necessari, non viene mai rilasciato il permesso di soggiorno definitivo”. 

Queste informazioni non sono sempre note al grande pubblico, come testimonia Anna. Qualche giorno fa si è recata presso il suo abituale droghiere, per fare qualche acquisto. “D’un tratto, mi ha guardato e mi ha chiesto se avessi un permesso di soggiorno”. Anna risponde negativamente. “Allora bisogna che tu lo faccia!” Gli risponde in modo sprezzante. Eppure, come numerosi altri subsahariani, ha da tempo cercato di legalizzare la sua situazione sul territorio, dal suo arrivo, nel 2016. Ma è stata rapidamente scoraggiata dall’impossibilità di ottenere questi documenti, quindi di lavorare legalmente e di viaggiare. Da quel momento, è paralizzata dalle penalità che deve pagare, che ammontano a 3000 dinari. Non ha potuto vedere le sue figlie, restate in Costa d’Avorio, da sei anni.

Per avere un permesso di soggiorno, ho bisogno di un lavoro e di un alloggio. Per avere un lavoro e un alloggio, ho bisogno di un permesso di soggiorno” riassume Pierre. Pierre lavora diversi giorni a settimana in un cantiere, come rigattiere. Davanti alle pressioni, il suo datore di lavoro gli ha detto che doveva presentare il suo permesso di soggiorno per continuare a lavorare. “Se avessi un permesso di soggiorno, pensate davvero che andrei a lavorare in un cantiere?” Ironizza. “Sappiamo bene  che siamo pagati meno dei tunisini, ma non abbiamo scelta” aggiunge Issa. 

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Per Jean – Bedel Ganable, presidente di Assivat, Associazione degli Ivoriani Attivi della Tunisia, la psicosi attuale è il risultato orchestrato di una campagna razzista del partito nazionalista tunisino: “Da tre o quattro mesi ci sono dei cyberattivsti tunisini che lanciano dei discorsi di odio e di propaganda per cacciare i subsahariani dalla Tunisia” spiega.  Da mesi, il Partito nazionalista tunisino, la cui organizzazione interna resta poco chiara, riversa propositi razzisti contro i migranti subsahariani in Tunisia sui social network – principalmente Facebook e Tiktok -. Il gruppo ha anche lanciato una petizione on line per abrogare la legge 50, votata lo stesso anno per punire ogni forma di razzismo e discriminazione nel Paese. Il comunicato della presidenza ha fatto da cassa di risonanza alla retorica razzista del Partito nazionalista e sembra aggravare l’ondata di violenza in Tunisia. 

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Il discorso politico è una scusa affinché i tunisini possano commettere certe azioni criminali e l’abbiamo constatato all’interno della comunità, abbiamo diversi connazionali che sono stati aggrediti”, si rammarica Jean – Badel. Per tutte le persone intervistate, è indubbio che questa campagna e il discorso ufficiale del presidente hanno dato vita a un razzismo senza vergogna. Anche nel caso in cui i proprietari non volevano sfrattarli, diverse persone dicono di temere la denuncia dei vicini. “La polizia è venuta a parlare alla mia proprietaria di casa – racconta Melissa –, sono i vicini che hanno riferito che ospitava dei subsahariani. La proprietaria è stata gentile, ha tenuto duro”.

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Gli arresti e le violenze arbitrarie mettono in pericolo anche i neri tunisini che diventano sempre più prudenti. Più persone hanno denunciato l’aggressione subita da una militante nera tunisina, in pieno centro a Tunisi. “Questo problema esiste da tempo”, commenta Chiheb, un giovane tunisino nero. “Ti insultano per strada in qualsiasi momento, e quando rispondi in tunisino, ti dicono: ah sei tunisino, non abbiamo dei tunisini neri, ti ho scambiato per un subsahariano”. 

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Per Melissa, Samia, Anna e gli altri, il male è iniziato. “Attendiamo. Non sappiamo cosa ci aspetta, abbiamo paura. Ma che cosa possiamo fare a parte aspettare?” L’articolo originale, in francese, lo potete leggere qui.