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Imparare le lezioni sbagliate dall’Olocausto

Articolo pubblicato originariamente su 972mag e tradotto dall’inglese dalla redazione di Bocche Scucite

Di Alon Confino*

Un partecipante all’evento annuale della “Marcia dei vivi” nel campo di concentramento di Auschwitz, il 2 maggio 2011. (Yossi Zeliger/Flash90)
Dopo la Seconda guerra mondiale, gli Stati hanno giustamente preso sul serio la lotta all’antisemitismo. Ma questa missione non deve incoraggiare l’oppressione di Israele sui palestinesi.

Questa è una versione modificata di un intervento sull’antisemitismo tenuto al Senato italiano a Roma il 12 gennaio, in occasione di un evento dedicato al rapporto di Francesca Albanese, Relatore Speciale delle Nazioni Unite per i Diritti Umani nei Territori Palestinesi Occupati, presentato alle Nazioni Unite lo scorso settembre.

L’antigiudaismo è antico, mentre il termine “antisemitismo” è relativamente nuovo. È stato coniato nell’ultimo terzo del XIX secolo ed è stato usato per la prima volta con grande effetto politico e culturale dallo scrittore e attivista radicale tedesco Wilhelm Marr nel 1879. Segnò un punto di svolta nella storia dell’odio per gli ebrei, segnando una divisione – anche se mai netta, e sempre mescolata e sovrapposta – tra l’odio classico, cristiano, per gli ebrei e gli atteggiamenti razzisti moderni, politicamente radicati.

Il termine è emerso e ha guadagnato popolarità come reazione alla nuova uguaglianza conquistata dagli ebrei in Germania e in altri Paesi europei. L’antisemitismo era un grido di protesta contro i diritti degli ebrei, che erano una minoranza indifesa, così come il movimento contro l’antisemitismo era un movimento per i diritti delle minoranze. Con tutta la complessità del termine – che si manifestava nella politica, nella società e nella cultura – c’era un ampio accordo tra gli ebrei e gli odiatori degli ebrei sul suo significato: l’antisemitismo significava la negazione dei diritti degli ebrei in quanto minoranza, sia che si trattasse di diritti legali sia che si trattasse del diritto di vivere. In altre parole, c’era un consenso sul significato del termine antisemitismo, soprattutto dopo l’Olocausto.

Come mai, dunque, l’”antisemitismo” si è evoluto in un termine così contestato nell’ultima generazione, in particolare tra gli ebrei? In effetti, forse non esiste un termine la cui definizione divida così tanto gli ebrei al giorno d’oggi. Allo stesso tempo, tra alcuni non ebrei europei e americani è emersa negli ultimi tempi una reazione riflessiva a definire antisemita qualsiasi descrizione che critichi le politiche di un governo israeliano nei confronti dei palestinesi. Il consenso sul significato del termine antisemitismo è evaporato.

L’antisemitismo è reale. Va combattuto senza riserve; questa affermazione è evidente. Per “antisemitismo” intendo gli attacchi ai diritti delle minoranze ebraiche e quando gli stereotipi utilizzati per attaccare i diritti delle minoranze ebraiche vengono applicati a Israele (ad esempio, quando Israele viene dipinto come un demone storico o quando gli ebrei israeliani vengono essenzializzati, trattati come se avessero un tratto caratteriale intrinseco, o vengono ritratti con ampie generalizzazioni negative).

Ma il motivo per cui parliamo di antisemitismo nella misura in cui lo facciamo al giorno d’oggi non è tanto perché i casi di antisemitismo sono aumentati – le prove di ciò sono complesse, contraddittorie e inconcludenti – ma perché siamo profondamente in disaccordo su come definirlo. La ragione di questo stato di cose è che la questione dell’antisemitismo è diventata inestricabilmente legata alla questione di Israele e della Palestina. Il nostro compito è quello di trovare il modo di distinguere tra un discorso antisemita e una critica legittima del sionismo e di Israele, per quanto dura e dolorosa possa essere per alcuni.

Una storia complessa di antisemitismo
Alcuni decenni dopo l’Olocausto, e in particolare a partire dagli anni ’80 e ’90, i Paesi europei e gli Stati Uniti (e anche altri Paesi) hanno preso molto sul serio la lotta all’antisemitismo. Essere accusati di antisemitismo è (per la maggior parte delle persone, lascio da parte gli antisemiti stessi per ora) una forte condanna che rivela il proprio indiscutibile fallimento morale e professionale. È così che dovrebbe essere.

Ma questa condizione è stata abusata negli ultimi tempi come arma di distruzione personale contro i critici del sionismo e delle politiche di Israele nei confronti dei palestinesi. Questa arma dell’antisemitismo è praticata contro individui, accademici, giornalisti, professionisti e organizzazioni per i diritti umani che osano sostenere la parità di diritti nazionali, politici, legali e civili per i palestinesi o fornire rapporti basati su prove sulle violazioni dei diritti umani nei territori palestinesi occupati. Questa è stata la reazione, per citare solo due esempi, al rapporto di Amnesty International “L’apartheid di Israele contro i palestinesi”, pubblicato nel febbraio 2022, e al rapporto di Francesca Albanese alle Nazioni Unite nel settembre 2022, nonché alla sua attività in generale come Relatrice speciale sulla situazione dei diritti umani nei Territori occupati.

Le accuse di antisemitismo a questo proposito fanno parte di una chiara strategia: farci impantanare in discussioni sul fatto che certe parole e certi modi di dire siano o meno antisemiti – o siano stati articolati con intenti antisemiti – per evitare la discussione fondamentale su ciò che accade realmente sul campo, cioè su come Israele neghi violentemente i diritti dei palestinesi.

L’obiettivo dell’arma dell’antisemitismo è la distrazione: evitare di parlare di come i palestinesi vivono la loro vita sotto occupazione e parlare invece del vittimismo ebraico.

Mi ricorda quello che Toni Morrison ha detto sul razzismo: “La funzione, la funzione molto seria del razzismo… è la distrazione. Ti impedisce di fare il tuo lavoro. Ti impedisce di spiegare, ancora e ancora, la tua ragione d’essere… Niente di tutto questo è necessario. Ci sarà sempre un’altra cosa”. Accusare i critici di Israele di essere antisemiti è una tale distrazione: impedisce alle persone serie di fare il loro lavoro per garantire pari diritti a tutti gli abitanti che vivono tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, e invece fa sì che queste persone debbano spiegare in continuazione che non sono antisemite. Ci sarà sempre un’altra accusa di antisemitismo quando verranno fornite le prove della negazione dei pari diritti dei palestinesi da parte di Israele. Chi, potremmo pensare, è interessato ad armare l’antisemitismo?

Ciò che emerge è la complessità della storia dell’antisemitismo, da quando il termine è stato originariamente inventato per indicare la lesione dei diritti della minoranza ebraica. Esiste, ovviamente, un discorso antisemita contro Israele. Ma su un altro piano, gli ebrei in Israele non sono una minoranza: sono la popolazione maggioritaria in uno Stato che discrimina strutturalmente i cittadini palestinesi di Israele, mentre tiene i palestinesi nei territori occupati in schiavitù come un popolo senza diritti. Dobbiamo lottare per proteggere le minoranze ebraiche al di fuori di Israele, ma non dobbiamo imbrigliare la lotta all’antisemitismo nell’interesse delle politiche di occupazione di Israele. Il gruppo senza diritti tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo non sono gli ebrei, ma i palestinesi, i cui diritti sono negati dagli ebrei.

Imparare le lezioni sbagliate dall’Olocausto
Sono uno storico e quindi devo ricordare a me stesso che le cose sono più complesse. A Roma [dove questo discorso è stato originariamente pronunciato], in via Portico d’Otavia, in via del Tempio e nei vicoli limitrofi del ghetto, 75 anni fa, il 16 ottobre 1943, gli ebrei furono rastrellati dai tedeschi nella razzia di Roma. Quel giorno a Roma pioveva. I tedeschi arrestarono 1.030 ebrei, tra cui circa 200 bambini sotto i dieci anni, e li spedirono due giorni dopo dalla stazione Tiburtina ad Auschwitz. Quindici sopravvissero alla guerra; solo una donna sopravvisse. Alcuni italiani aiutarono gli ebrei, altri i tedeschi.

Elsa Morante ha conservato per sempre queste scene nel suo capolavoro, “Storia. Un romanzo”. I protagonisti, Ida e suo figlio Useppe, arrivano alla stazione Tiburtina il 18 ottobre 1943. Il lettore viene condotto nella scena infernale attraverso percezioni sensoriali. Ida sente un suono indistinto:

Verso la strada obliqua che porta ai binari, il volume del suono aumenta. Non era, come Ida si era già convinta, il grido degli animali ammassati nei carri bestiame […] Era un suono di voci, di una voce umana […] Alla fine della rampa. Su un binario dritto e morto si trovava un treno […] Le voci provenivano dal suo interno.

Quali sono gli insegnamenti che possiamo trarre dalla persecuzione degli ebrei a Roma e durante l’Olocausto? Io traggo due lezioni. La prima riguarda l’impegno obbligatorio dell’Italia, così come di altri Paesi europei, a ricordare l’Olocausto con senso di responsabilità storica e di responsabilità, a combattere l’antisemitismo con tutte le sue risorse e a sostenere i pieni diritti – politici e non solo – degli ebrei ovunque essi si trovino. In Italia, ciò significa anche fare i conti con il passato fascista in generale e con la persecuzione degli ebrei italiani da parte del fascismo in particolare.

Un palestinese cammina tra le macerie di un edificio demolito dalle forze di sicurezza israeliane nel quartiere di Gerusalemme di Jabel Mukaber, 29 gennaio 2023. (Jamal Awad/Flash90)
La seconda lezione è che la nostra sfida è come destreggiarci nella tensione tra il mantenere viva la memoria specifica dell’Olocausto e combattere l’antisemitismo laddove emerge, mantenendo il valore universale che è emerso dall’Olocausto: l’uguaglianza dei diritti e la garanzia di una vita libera da discriminazioni sono fondamentali per tutti gli esseri umani – diritti che oggi Israele nega ai palestinesi.

Accettare l’accusa di antisemitismo rivolta a chi fornisce prove delle violazioni dei diritti dei palestinesi – chiamarlo con il suo nome proprio, apartheid, ed esigere responsabilità – si basa sull’assioma che una delle lezioni dell’Olocausto è che gli ebrei israeliani hanno sempre ragione. Considerare qualsiasi gruppo umano come al di là della riprovazione morale e della responsabilità storica è una forma di culto che le persone sagge dovrebbero evitare. Imparare dall’Olocausto che tutti gli esseri umani meritano una vita di dignità e diritti, tranne quelli i cui diritti sono negati dagli ebrei israeliani, è una farsa morale. Sono un ebreo israeliano che vive in America. Diffido dei filosemiti che pensano che Israele non possa sbagliare, così come degli antisemiti che pensano che gli ebrei siano eternamente da biasimare. Diffidate di chi vi santifica o vi disumanizza.

Preferisco che gli ebrei israeliani siano trattati come esseri umani che, come tutti gli esseri umani, dovrebbero essere giudicati e ritenuti responsabili delle loro azioni, che inevitabilmente comprendono azioni buone e meno buone. Ogni società ha delle ambiguità morali. Gli ebrei israeliani rivendicano la memoria di vittime dell’Olocausto, ma oggi sono anche carnefici nei confronti dei palestinesi. Lo status di vittima e di carnefice può coesistere nella stessa persona e nello stesso gruppo, in tempi storici diversi.

C’è un altro modo per collegare l’Olocausto al trattamento riservato da Israele ai palestinesi, ossia il rapporto con il potere politico e il suo abuso. Gli ebrei sono stati vittime dell’abuso del potere statale in Europa tra il 1919 e il 1945; ma anche oggi abusano del potere statale in Israele e nei territori occupati.

Naturalmente, alcuni critici di Israele potrebbero essere antisemiti; dovremmo smascherarli e combatterli. Ma Amnesty International, Francesca Albanese e innumerevoli altri non lo sono. Accettare e ribadire l’accusa di antisemitismo contro i difensori dei diritti dei palestinesi significa non vedere che tra il fiume e il mare ci sono due gruppi nazionali di circa 6,8 milioni di ebrei e 6,8 milioni di palestinesi – uno dei quali ha tutti i diritti che nega, in vari modi, all’altro. Questo include il razzismo sistemico nei confronti dei cittadini palestinesi di Israele, l’occupazione della Cisgiordania e l’assedio della Striscia di Gaza, creando un’enorme prigione.

In nome della democrazia, Israele ha mantenuto un assetto politico di violenta soppressione e occupazione di milioni di esseri umani per 55 anni. La maggior parte delle persone nei territori occupati non conosce un’altra realtà, un altro modo di vivere. Non c’è alcun segno che Israele abbia intenzione di porre fine a questa occupazione – al contrario, ci sono segni credibili che sia permanente – e gli occupati non hanno alcun controllo sui loro occupanti o sull’opinione pubblica. Israele parla in nome dell’eterno vittimismo e della libertà per il popolo ebraico – una libertà che per Israele significa libertà di brutalizzare, saccheggiare e distruggere, umiliare e degradare. I palestinesi sono liberi di vivere come partecipanti silenziosi alla loro stessa fine. Il punto principale è questo: non c’è nulla di antisemita nel documentare queste condizioni.

Speranza contro speranza
Roma e l’Italia sono vicine al mio cuore e mai lontane dalla mia mente. I miei nonni, Enzo e Ada Sereni, sono nati a Roma all’inizio del secolo scorso. Emigrarono nel 1927 in Palestina, primi sionisti italiani a farlo. Avevano 22 anni. Enzo divenne una delle giovani stelle del movimento sionista laburista. Nel 1943-44, l’esercito britannico e la leadership della comunità sionista in Palestina istituirono un’unità di paracadutisti di soldati ebrei provenienti dalla Palestina, la cui missione era quella di lanciarsi dietro le linee nemiche in Europa per aiutare sia le forze britanniche sia gli ebrei nei territori occupati dai nazisti. La missione era destinata a giovani soldati, ma Enzo, allora 39enne con una famiglia e tre figli, si offrì volontario. Tutti – da Ada a David Ben Gurion, leader del movimento sionista in quegli anni – si opposero alla sua decisione. Nel maggio 1944 si lanciò con il paracadute vicino a Firenze, fu catturato dai nazisti e ucciso nel campo di concentramento di Dachau nel novembre dello stesso anno.

Quando Enzo arrivò in Palestina, si rese conto che lì viveva già un altro popolo con aspirazioni politiche molto diverse dalle sue. Enzo scrisse molto sulla storia sionista e italiana, e una cosa che scrisse nel 1936 mi è sempre rimasta impressa. Le forze sioniste progressiste hanno una sola via d’uscita dall’attuale impasse politica, scriveva, “la creazione di un potere statale che riconcili gli interessi di entrambe le nazioni e che garantisca a ciascuna nazione una completa autonomia sulle proprie politiche interne”. E concluse con parole squillanti: Ebrei e arabi dovrebbero “sviluppare una patria comune e uno Stato comune”. Non è il particolare assetto politico ad essere cruciale, ma piuttosto la visione di uguaglianza e umanità.

Enzo Sereni. (Per gentile concessione dell’archivio della famiglia Sereni)
Questo oggi sembra una fantasia. Bisogna essere quasi privi di senso della realtà per credere che l’uguaglianza dei diritti per tutti gli israeliani e i palestinesi sia un programma politico realizzabile. Ma ricordo un’altra frase che Enzo scrisse, questa volta al fratello Emilio, nel 1927, durante la loro corrispondenza sul significato della storia. Emilio era marxista, Enzo sionista. Emilio Sereni divenne poi uno dei leader del Partito Comunista Italiano del dopoguerra. Scrisse a Enzo dell’inesorabile cammino della storia verso l’utopia marxista. Enzo rispose con una splendida frase: “La storia è già stata scritta e a noi non resta che eseguirla?”.

Non sappiamo cosa ci riserverà il futuro. Sappiamo che i valori contano, le parole contano, la verità conta. Combattere l’antisemitismo, come parte dei diritti umani universali e dei principi antirazzisti, insieme alla lotta per la piena uguaglianza dei diritti di tutti gli abitanti della Terra Santa e per la fine dell’oppressione e della discriminazione, sembra essere un’eredità degna e un piano d’azione degno per il presente. Speriamo, anche contro la speranza.

  • Alon Confino è titolare della cattedra Pen Tishkach di Studi sull’Olocausto presso l’Università del Massachusetts, Amherst. Il suo libro più recente è “Un mondo senza ebrei: The Nazi Imagination from Persecution to Genocide”.