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Aumentano le emissioni legate alle attività militari ma anche la COP 27 le ignora

Adriana Salafia

Dal 6 al 18 novembre si è tenuta  in Egitto la 27° Conferenza delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (COP 27) che è cominciata con diverse criticità.

Una è il luogo in cui si è svolta, l’Egitto, un Paese considerato dalle organizzazioni  dei diritti umani come uno dei più brutali e repressivi al mondo; per questo motivo molte organizzazioni hanno espresso il loro dissenso disertando l’evento.

Un’altra criticità è quella legata alla presenza di 630 lobbisti delle compagnie dei combustibili fossili, mentre moltissimi Paesi del sud del mondo e attivisti della società civile non hanno avuto accesso a causa delle difficoltà con i visti e la mancanza di fondi. Inoltre, come denuncia Greenpeace, “è paradossale che la Coca-Cola, nota per le sue politiche estrattive essendo il maggior inquinatore da plastica, sia stato lo sponsor ufficiale della Conferenza COP 27”.

Tra i temi in discussione quello del “loss and demange” (perdite e danni) è stato l’argomento che ha avuto maggiore attenzione. In pratica, i Paesi più vulnerabili hanno chiesto compensazioni economiche per i danni che stanno già sperimentando a causa dei cambiamenti climatici, un problema non certo causato da loro e, infatti, nel testo finale di COP27 è incluso un fondo a tale scopo. Se concettualmente è un passo storico verso la “giustizia climatica”, il testo conclusivo, a detta degli esperti, appare abbastanza vago con domande che si pongono: chi riceverà questi fondi? quali saranno i donatori? quali saranno i criteri per l’assegnazione?

Riguardo alla mitigazione, cioè sulla riduzione delle emissioni, non ci sono stati passi avanti significativi.

Anche quest’anno il grande assente alla CPO27 è stato il settore militare e le conseguenze del suo impatto nell’ambiente riguardo alle emissioni di CO2. Quello delle emissioni militari di gas serra è uno di quegli argomenti di cui poco si parla, ma che non può essere ignorato! Ai negoziati sul clima non si è mai parlato del problema delle emissioni del settore militare, nessun accordo internazionale sul clima cita le emissioni militari, anzi alla stipula di Kyoto del 1997 fu escluso l’obbligo di rendicontarle. Anche alla COP26 di Glasgow 225 ong avevano sottoscritto un appello in cui chiedevano ai governi di fissare obiettivi chiari di riduzione delle emissioni di gas serra per il settore militare, in linea con l’obiettivo di 1,5°C. Ma l’appello cadde nel vuoto. Va ricordato, inoltre, che la convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCC) obbliga i firmatari a rendicontare le emissioni di gas serra ma la parte relativa alle emissioni militari è volontaria e spesso poco trasparente. E’ ovvio che, senza nemmeno un obbligo minimo di comunicazione all’UNFCC, la maggior parte dei Paesi non si sentono in dovere di richiedere alle loro forze armate di fornire alcuna comunicazione significativa sulle emissione di gas serra.

Secondo un recente report dell’Osservatorio sui Conflitti e l’Ambiente (Conflicts and Enviroment Observatory) a livello globale “ le forze armate sono responsabili del 5,5% delle emissioni di gas serra, una percentuale così enorme che non può più essere ignorata”. Proviamo a capire: si legge nel report “che la stima dell’impronta di carbonio militare globale è approssimativamente compresa tra i 1.600 e i 3.500 milioni di tonnellate di CO2 equivalente, ovvero tra il 3.3% e il 7,0 % delle emissioni totali di gas serra a livello globale.

Le emissioni di gas serra comunicate all’UNFCC rientrano in cinque categorie chiave ( energia; agricoltura; processi industriali e uso dei prodotti; uso del suolo; rifiuti). Ma occorre tener presente che,ad esempio, alcune delle emissioni militari sono attualmente classificate nei settori dell’aviazione e del trasporto marittimo”.

Nel report, inoltre, non sono state incluse le emissioni di gas serra derivanti dagli impatti dei combattimenti bellici, come gli incendi, i danni alle infrastrutture e i danni agli ecosistemi, la ricostruzione post-bellica e l’assistenza sanitaria per i sopravvissuti. Quindi, dicono gli autori del report, che la contabilizzazione di tutti questi altri effetti legati ai combattimenti bellici, possa aumentare la cifra totale in modo significativo perciò il livello complessivo di emissioni di gas serra poterebbe ad una impronta di carbonio militare globale oltre il 5,5 %.

E irragionevole aspettarsi che altri settori, come la produzione alimentare e l’assistenza sanitaria, riducano le propri emissioni e non ci si aspetti che le forze armate facciano lo stesso.

Il cambiamento climatico richiede un cambio di rotta e a tutti i settori è richiesta un’azione in risposta alla crisi climatica, compreso l’esercito.

Se i governi vogliono raggiungere i propri obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni, devono includere nelle loro strategie di riduzione anche il settore militare e questo comporterà innanzitutto un quadro per la rendicontazione militare credibile e trasparente. Se quella della CPO27 è l’ennesima occasione persa, non tutto è perduto. Le COP che verranno, sono sollecitate sin da adesso a prendere in considerazione o forse a prendere coscienza che esiste un fortissimo legame tra le fonti fossili e il mondo militare.

La sfida climatica deve diventare una sfida di tutti, altrimenti sarà una sfida persa, per tutti (soprattutto i più deboli).