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Africa, chi ha paura di Facebook?

cartina dell'Africa

Il caso di un ragazzo portato in tribunale in Zimbabwe per una frase postata su Facebook dimostra quanto i social network siano temuti dalle “democrature” continentali
La sentono arrivare e la temono, corrono ai ripari, tentano contromosse che spesso hanno la stessa efficacia degli scongiuri. La “Primavera araba” bussa alle porte di diversi autocrati africani, che dopo aver assistito al rovesciamento dei regimi di Tunisia, Egitto e Libia, temono di fare la stessa fine di Ben Ali, Mubarak e Gheddafi. E allora stringono la morsa, irrobustiscono la censura ma si trovano a dover combattere contro un nemico nuovo contro il quale le vecchie armi non bastano: i social network. Fa riflettere ad esempio la sconfitta subita martedì dal vecchio Robert Mugabe, un tempo liberatore, oggi despota dello Zimbabwe. La corte di Bulawayo ha lasciato cadere il procedimento contro Vikhas Mavhudzi, un ragazzo colpevole di aver postato, lo scorso 13 febbraio, un messaggio sul profilo Facebook del principale oppositore di Mugabe, il premier Morgan Tsvangirai, in cui inneggiava alla rivoluzione egiziana. Nulla di particolarmente eclatante, a dire il vero. Il testo diceva: “Sono sopraffatto dalla gioia, non so cosa dire signor Primo ministro. Quel che è successo sta mandando onde d’urto ai dittatori in tutto il mondo. Nessuna arma ma unità nello scopo”. Mavhudzi era finito subito in carcere e c’era rimasto fino al 31 marzo, quando era stato liberato su cauzione. Ma l’accusa per lui era grave: sedizione. Il processo però continua per altre sei persone, accusate di aver dato vita ad una cospirazione per il semplice fatto di aver partecipato ad una lezione universitaria nella quale il docente, riferendosi alla caduta di Hosni Mubarak in Egitto, aveva chiesto: “Quali lezioni si possono trarre?”.

Una lezione gli autocrati in questione l’hanno imparata: Facebook, Twitter e la rete in generale sono strumenti fenomenali e se ben usati possono mettere in serie difficoltà un regime, soprattutto perché si legano alla telefonia mobile e a cellulari spesso muniti di camera. Sono strumenti per coordinarsi, scambiare informazioni in tempo reale ma anche per documentare ciò che i governi potrebbero voler tacere. Lo scorso aprile, ad esempio, il violento arresto del leader dell’opposizione ugandese, Kizza Besigye, fu documentato con una serie di scatti che finirono su internet immediatamente e contribuirono a far crescere la tensione fino a un livello di guardia. Se, come il caso delle Zimbabwe dimostra, le leggi esistenti non sono un deterrente perché inutili, la lotta si sposta su un piano più tecnologico. Lo ha confermato di recente il numero uno del dipartimento commerciale di Mtn, gigante sudafricano della telefonia, operativo in 21 Paesi di Africa e Medio Oriente, ha ammesso di aver ricevuto pressioni da diversi governi perché chiudesse i principali social network. De Faria non ha fatto nomi, ma non è difficile capire di chi stesse parlando. Dell’Uganda di Yoweri Museveni, il presidente che ha fatto arrestare Vicent Nzaramba, autore di un libro giudicato scomodo (People Power. Battle the Mighty General). Qui, non ci sono molte speculazioni da fare: due colossi della telefonia, internet provider come Warid Uganda Ltd e Uganda Telecom Ltd hanno bloccato l’accesso ai Twitter e Facebook più volte nei giorni più caldi delle marce contro carovita e disoccupazione (e contro Museveni) dell’iniziativa Walk to Work. La stessa Uganda Comunication Commission ha ammesso forti pressioni da parte degli apparati di sicurezza per chiudere i due network.

Lo stesso è accaduto in Senegal, in occasione delle proteste contro il presidente Abdoulaye Wade, in Swaziland, una delle ultime monarchie assolute al mondo, sull’orlo della bancarotta, in Camerun dove la presidenza di Paul Biya è piuttosto traballante e, lo scorso marzo, grazie a pressioni sull’Mtn, è stato bloccato l’accesso a Twitter dal cellulare. Facebook in particolare fa molta paura per le percentuali di crescita dell’utenza che si registrano in Africa: è quasi ovunque, nel continente, il secondo sito per numero di accessi. Ma è la rete in generale a tenere in apprensioni i governi africani. In Ruanda è stato chiuso il sito Umuvugizi e il suo editore condannato a due anni in contumacia per aver insultato il presidente Paul Kagame. La lotta si fa dura e alcuni stati stanno investendo ingenti risorse nella repressione del dissenso on line. Lo ha detto chiaramente il Comitato per la protezione dei giornalisti che a giugno ha organizzato un incontro in Sudafrica per discutere della situazione africana. La reporter della Bbc Karen Allen, scrivendo dell’evento, si chiedeva se la crescente presenza cinese nel continente non comportasse anche un travaso dell’esperienza di Pechino in materia. Secondo la Allen, i casi di Sudan e Tanzania, i cui governi avevano fatto ricorso a Malware per entrare nei computer e controllarli, cancellando dati o modificandoli, sono piuttosto preoccupanti.

Alberto Tundo 26/09/2011 Peace reporter