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Biden cambierà davvero il controllo degli armamenti?

Non solo controllo degli armamenti. L’annuncio di Biden di voler rafforzare le vecchie alleanze ha suscitato molto entusiasmo e irrealistiche aspettative negli alleati europei e asiatici degli Usa. Tutti hanno pensato di approfittarne, senza chiedersi se Biden, debole sul fronte interno, sarà in grado di attuarlo effettivamente. L’analisi di Carlo Jean

Il nuovo presidente Usa, Joe Biden, ha ripetutamente affermato che il Controllo degli Armamenti costituirà una componente centrale della sua politica estera. Essa sarebbe volta a rilanciare il multilateralismo liberale e democratico e, con esso, a legittimare la leadership americana nel mondo. Soft power, diplomazia e rafforzamento delle alleanze ne sarebbero gli strumenti essenziali.

Biden cioè vorrebbe sostituire all’America First di Trump un’America Back, nel suo ruolo di leader e, se necessario, di gendarme dell’internazionalismo democratico contro i crescenti autoritarismi.

Tale radicale mutamento rispetto alla politica di Trump non sarebbe una novità. Nella storia, gli Usa hanno sempre alternato cicli d’isolazionismo e d’internazionalismo.

A parer mio, l’importanza attribuita da Biden al controllo degli armamenti sarà nella realtà ridimensionata. Sarà più una conseguenza di altre politiche sia di sicurezza che economiche, che una causa di distensione e di stabilità.

Uomo della guerra fredda, Biden conosce bene la rilevanza dell’Hard Power e i limiti del Soft Power. Senza un equilibrio delle forze o la superiorità di quelle dello status quo, difficoltà interne ed esterne, oggettive e soggettive rendono impraticabile ogni accordo. Esistono limitazioni insuperabili del contributo dell’Arms Control — incluso il disarmo concordato fra le parti; non quello imposto dal vincitore al vinto che segue logiche differenti — alla distensione e alla pace.

Il controllo degli armamenti fa parte della strategia di sicurezza. Mira a neutralizzare il “dilemma della sicurezza”, secondo il quale, nella situazione di anarchia che caratterizza il sistema internazionale, tutte le misure decise da uno Stato per aumentare la propria sicurezza, inducono gli altri ad adottarne di analoghe, determinando una costosa corsa al riarmo e imprevedibilità e tensioni che rendono più probabile un conflitto. Ciò avviene specie nei periodi, come l’attuale, in cui la tecnologia favorisce l’offensiva rispetto alla difensiva, aumentando la possibilità di guerre preventive. Il controllo degli armamenti mira a neutralizzare il “dilemma della sicurezza”, a creare un sistema di sicurezza reciproco e condiviso, a facilitare le comunicazioni e la trasparenza fra potenziali avversari, riducendo il rischio di guerre per errore, a ridurre costi e a limitare danni e perdite dei conflitti.

L’efficacia e la stessa possibilità di qualsiasi accordo dipendono dall’interesse dei contraenti a mantenere lo status quo e dall’esistenza di un certo grado di fiducia reciproca, di affidabili sistemi di verifica e della capacità di “punire” le violazioni, anche tramite il ritiro dall’accordo. Il controllo degli armamenti non crea la pace. Presuppone che essa già esista e sia abbastanza solida. Quindi, il controllo degli armamenti è possibile quando non serve. Diviene invece impossibile quando servirebbe per davvero. Il suo valore aggiunto per la pace e la stabilità internazionali è del tutto relativo.

Anche il semplice ripristino della partecipazione Usa agli accordi da cui Trump si era ritirato presenta molte difficoltà per motivi sia interni che esterni, a cui si aggiunge l’impatto dell’attuale accelerata evoluzione tecnologica negli armamenti sia difensivi, sia soprattutto offensivi, e anche dei mutamenti geopolitici, primo fra i quali la scomparsa del mondo bipolare. Concludere un trattato a due è molto più semplice di giungere a un accordo con tre o più parti, come inevitabile nel mondo policentrico.

Principale fra i fattori interni è la polarizzazione esistente negli Usa. Biden dovrà privilegiare le iniziative approvabili con semplici ordini esecutivi presidenziali (come l’accordo di Parigi sul clima o il prolungamento di uno-cinque anni del New START, che scade il 5 febbraio) o che richiedano la maggioranza semplice al Senato e al Congresso. Non potrà rinegoziare nuovi trattati. Essi richiederebbero la ratifica di irraggiungibili due terzi del Senato. Inoltre, deve tener conto che spesso i motivi addotti da Trump per il ritiro sono condivisi dai Democratici.

Nuovi negoziati sarebbero molto complessi. Contrariamente a quanto molti pensano, Biden è un duro ed esperto negoziatore. Lo ha dimostrato nei negoziati con l’Urss negli anni ’80 e poi da vice di Obama. Ma, prima di far sentire all’estero il peso degli Usa, dovrà rafforzarsi all’interno. L’annunciato D-10 o Summit delle Democrazie (G-7 più India, Corea del Sud e Australia) e la sua presumibile crociata per i diritti umani non faranno né caldo né freddo a Russia, Corea del Nord, Cina e Iran. Taluni interlocutori degli Usa – sia alleati che avversari – hanno approfittato del vuoto di potere del cambio di presidente. Ad esempio, la Russia ha continuato a sviluppare e a schierare i cruise nucleari a gittata intermedia, con cui Trump giustificò il ritiro Usa dal Trattato INF; l’Iran dispone di una quantità di uranio arricchito al 20% (non al 3,67% previsto dall’JCPOA, trattato sul nucleare iraniano), cioè di una quantità superiore di 12 volte a quella consentita, e ha potenziato l’impianto sotterraneo di arricchimento di Forlow. Teheran non accetterà condizioni più dure, come la sospensione del suo potenziamento missilistico. Per resistere alle sanzioni Usa, pensa di poter contare su un maggior sostegno della Cina e anche dell’Ue. È persuasa che l’indebolimento degli Usa, dovuto al Covid-19, non consentirà a Washington di imporre, come nel passato, la sua volontà con sanzioni extra-territoriali.

Tale convinzione iraniana si è rafforzata con la firma con Pechino da parte dell’Ue dell’accordo sugli investimenti. Gli europei hanno sfidato Biden, non tenendo neppure conto della sua richiesta di aspettare il suo insediamento. Tutti i paesi europei vorrebbero il ripristino dell’Accordo sugli euromissili, ma nessuno è disponibile a schierare euromissili sul proprio territorio, come avvenuto negli anni ottanta. Allora, la decisione del dual track fu determinante per convincere l’Urss a eliminare i suoi euromissili dall’Europa. Dal canto loro, Giappone, Corea del Sud ed Australia hanno concluso accordi commerciali che includono la Cina, ma non gli Usa (Rcep e Cptpp).

L’annuncio di Biden di voler rafforzare le vecchie alleanze ha suscitato molto entusiasmo e irrealistiche aspettative negli alleati europei e asiatici degli Usa. Tutti hanno pensato di approfittarne, senza chiedersi se Biden, debole sul fronte interno, sarà in grado di attuarlo effettivamente. Gli alleati degli americani, alquanto “malmenati” da Trump, non si sono chiesti che cosa dovrebbero fare per rafforzare Biden al suo interno e all’estero. Solo così potranno realisticamente pensare che Biden possa procedere in quanto promesso, tenendo conto anche dei loro desideri. Si sono invece preoccupati solo dei loro interessi “di bottega”.

Prima o poi Biden si chiederà se non avesse ragione Trump.

(https://www.startmag.it/mondo/biden-cambiera-davvero-il-controllo-degli-armamenti/)