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Il pentalogo della speranza

Carissimi,
intendo comunicarvi ciò che avverto come vescovo della strada, abituato, per temperamento o per missione, a coinvolgere la gente nell’avventura del volontariato, ma che oggi, di fronte alle nuove domande del mondo e di fronte ai repentini cambi della scena sociale, sente di dovere modulare i termini della proposta.
Ho parlato di scena e voglio mantenere la metafora. Sicché mi rivolgerò al volontariato come protagonista sotto le luci della ribalta e vi affiderò un «pentalogo». Cinque precetti.


Ricomprendere

Se è vero che il volontariato nasce sostanzialmente dall’amore, occorre dire che il più grande atto d’amore consiste nel conoscere le coordinate spazio/temporali, peraltro sempre cangiantì, su cui i poveri di oggi consumano il loro crepuscolo.
Non è pensabile che io qui possa mettermi a descrivere lo scenario che si dispiega sotto i nostri occhi.
Non finirei di raccontarlo e già sarebbe nuovamente cambiato, tale è la rapidità con cui accadono i mutamenti.
Però posso indicare certe costanti che connotano questo cambiamento.

La dilatazione del tempo – Il tempo è divenuto un recipiente elastico che contiene un numero sempre più alto di fatti. Nell’arco di un anno se ne condensano più di quanti, prima, se ne concentrassero in un secolo. Quando, fra 8 anni, entreremo nel terzo millennio, forse avremo l’impressione di transitare in una nuova era geologica. Speriamo che non sia di glaciazione.
La concentrazione dello spazio – Oggi, come se stessimo in un villaggio, siamo messi al corrente in tempi reali di quello che accade nella zona più remota del mondo: anche se, molto spesso, la nostra inerzia non subisce scossoni.
L’allungarsi della strada, che porta verso l’altro – Sembra paradossale, ma mentre il mondo si è rimpicciolito alle dimensioni di «Rio Bo» di Palazzeschi (tre casettine dai tetti aguzzi… vi ricordate?), le vie all’interno del villaggio sono divenute lunghissime. Ci vuole una vita per andare a bussare alla porta del fratello e incontrarsi finalmente con lui.
La presa d’atto della interdipendenza – Nel bene e nel male si va sempre più riconoscendo il legame che stringe in un’unica sorte gli uomini e i popoli tra di loro. Si afferra meglio di prima il riverbero positivo che la situazione felice degli altri può avere sulla propria vita, così come oggi si comprende, con maggior lucidità di ieri, che un sistema di violenza e di oppressione, sia pur lontano, scatena nefaste conseguenze a catena su tutti. Del resto, i fenomeni della malavita organizzata, della diffusione della droga e del commercio delle armi, non sono universalmente riconosciuti interdipendenti tra di loro, al punto da far giudicare ingenui tutti i tentativi di combatterli con strategie diversificate?
Il pendolarismo tra presa d’atto dell‘interdipendenza e bisogno di rifugiarsi nel piccolo – Per un verso si innescano processi di internazionalizzazione a livello economico, culturale, politico… per un altro verso scoppiano preoccupanti fenomeni di chiusura nei sottomultipli di identità più ampie. Ciò che sta accadendo in Italia col fenomeno delle leghe, ciò che accade in tante parti dell’Europa con il rincrudirsi del razzismo, ciò che avviene nei paesi dell’Est col risorgere dei nazionalismi latenti, demoni perversi che minacciano di far esplodere una miscela ad alto potenziale è molto sintomatico.
Ecco, allora. Lo scenario è cambiato. Bisogna ricomprenderlo e una volta per tutte. Occorre allenarsi all’effimero. Diversamente il volontariato rischierà di recitare a soggetto la sua parte con gli antichi criteri teatrali dell’unità di tempo, di luogo e di azione che oggi non reggono più, perché tempo, luogo e azione, risultano sfasati rispetto ad appena dieci anni fa.

Ricomprendersi

È necessario, cioè, che il volontariato si ristudi la parte che deve recitare, che prenda sempre meglio coscienza, cioè, della sua nuova identità, i cui tratti caratteristici mi pare di scorgere in questi due elementi.
Anzitutto, il volontariato deve sentirsi il figlio primogenito, anche se non unico, della solidarietà.
È ormai diventata un classico la descrizione di questa madre nel n. 38 della «Sollecitudo Rei Socialis».
«La solidarietà non è un sentimento di vaga comprensione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane. Al contrario, è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti. Tale determinazione è fondata sulla salda convinzione che le cause che frenano il pieno sviluppo siano quella brama del profitto e quella sete del potere di cui si è parlato. Questi atteggiamenti e strutture di peccato si vincono solo (presupposto l’aiuto della grazia divina) con un atteggiamento diametralmente opposto: l’impegno per il bene del prossimo con la disponibilità, in senso evangelico, a perdersi a favore dell’altro invece di sfruttarlo ed a servirlo invece di opprimerlo per il proprio tornaconto».
Ho detto che non è solo il volontariato ad essere figlio della solidarietà così intesa. Ci sono tanti moduli di impegno umano che, pur professionalizzato e retribuito e comunque gratuito o non inquadrabile in un contesto religioso, possono per la loro fondamentale onestà dirsi, a pieno titolo, figli legittimi della solidarietà. Credo che sia dovere del volontariato operare con gioia il riconoscimento di questi fratelli germani. Come pure credo che sia suo diritto smascherare tutte quelle «sosia» vestite come la madre ma che con la solidarietà non hanno nulla da spartire. In nome della solidarietà internazionale si fanno le guerre nel Golfo; in nome della solidarietà internazionale si sostengono i regimi sanguinari somali ed etiopi; in nome della solidarietà nazionale si schierano gli eserciti sui porti di Bari per rispedire a casa gli albanesi dopo averli umiliati; in nome della solidarietà civile si mettono i tossici in carcere, ci si difende ghettizzando i malati di Aids e si criminalizza il diverso… dimenticando che questi infelici non sono i malati della nostra società, ma sono piuttosto quelli che portano il peso di una società malata.
Il volontariato deve essere capace di togliere il trucco a queste travestite e di scoprire gli altarini sotto le cui tovaglie sante l’ambiguità crea legittimazione.
In secondo luogo, il volontariato oggi deve sentirsi padre di cultura, più che produttore di servizi.
Generatore di coscienza critica, più che gestore degli scarti residuali dell’emarginazione sfuggiti alle ben remunerate ditte appaltatrici del bisogno.
Fattore di cambiamento della realtà, più che titolare di un assistenzialismo inerte, che spesso legittima lo sfruttamento o per lo meno addormenta quel moto di irriducibilità ad ogni forma di oppressione,
Il volontariato, cioè, è oggi chiamato a promuovere coscienza critica. E il suo indubbio interesse per la marginalità deve giungere anche alla stroncatura serrata dei processi emarginativi: alla demolizione, cioè, delle «strutture di peccato» come dice il papa, o «strutture di regressione» come dicono i vescovi nel documento «Chiesa italiana e Mezzogiorno’.
È necessario che il volontariato si ricomprenda in questa sua fertilità progettuale, in questa sua fecondità di innovazioni, in questa sua creatività di moduli con cui riscopre lo stile della vigilanza, della denuncia, del controllo sulle logiche che presiedono alla confezione delle leggi e dei bilanci.
Il volontariato deve riscoprirsi padre e non accontentarsi di rimanere attore.

Ricollocarsi
Il volontariato (meridionale soprattutto) deve fare una chiara scelta di posizione. Deve decidersi da che parte stare sull’ampio scenario del mondo contemporaneo. Supposto che non voglia rimanere dietro le quinte. Questo situarsi su di un preciso asse della ribalta connoterà il suo impegno, fonderà la sua credibilità e deciderà la qualità del suo servizio.
Si deve fare volontariato ascoltando Maastricht, la città dove hanno ratificato l’unificazione economica europea o ascoltando giornalmente gli immigrati del Maghreb? Dando fiducia all’Europa dei mercati o prestando l’orecchio all’Europa dello scirocco? Investendo la speranza sulle categorie elaborate dai «mattre à penser» del Nord o puntando sulle logiche costruite dagli inquilini che abitano i sotterranei del Sud? Preferendo gli Osservatori collocati al centro o mettendo l’occhio ai grandangolari piazzati in periferia?
Il volontariato, insomma, oggi deve fare una netta scelta di campo. Deve schierarsi. Non può rimanere neutrale. Non può continuare ad essere pacificato. Pacifico, sì, non violento. Deve saper cogliere il significato conflittuale della povertà. Non gli è consentito di starsene buono in un angolo, mentre sa che in Italia ci sono 8 milioni e mezzo di poveri e che nel Meridione un terzo della popolazione non si trova garantita a nessun livello, nè sociale, nè economico, nè culturale, eccettuato il livello della pura sussistenza. Non può tollerare che, stante questa sperequazione, ci si avvii poi a ratificare un nuovo patto sociale e costituzionale intessuto per intero sugli interessi dei più forti.
Non gli è lecito mantenersi equidistante quando vede che il Sud d’Italia è il luogo paradigmatico dove si manifestano gli stessi meccanismi perversi che, certamente in modo più articolato, attanagliano tutti i Sud della terra.
Questa nuova visione planetaria, che ci fa scorgere come i più poveri sono sempre più numerosi mentre i ricchi diventano sempre più ricchi e sempre di meno, deve spingere il volontariato a decidersi da che parte stare se vuole che la sua azione sia demolitrice delle strutture di peccato, o rimanga invece una semplice opera di contenimento e di controllo sociale, come di utile ammortizzatore, tutto sommato funzionale al sistema che tali sperequazioni produce e coltiva.

Ricollegarsi
Questo significa due cose.
Anzitutto, che il volontariato deve trovare rapporti nuovi con gli altri attori che, sia pur con ruoli diversi, agiscono sullo stesso scenario a vantaggio delle stesse categorie a rischio.
Accettare di lavorare con gli altri, senza gelosie, senza smanie di protagonismo, senza la lusinga di sentirsi dire che si è più bravi degli altri.
Promuovere una nuova cultura tra volontariato e pubblica istituzione, perché, al di là di ogni equivoco di concorrenzialità, si strutturi un’organica continuità di servizio a vantaggio dei poveri.
Avere la gioia di collaborare insieme a progetti buoni e magari guidati da altri, senza star troppo a sottilizzare sul nome del progettista o sulla collocazione politica del capo-cantiere.
Non star lì a menar vanto ad ogni pie’ sospinto, della gratuità del proprio servizio continuamente comparato con l’evolversi di altri gruppi e istituzioni (cooperative di gestione di servizi etc.) verso traguardi remunerativi.

Il volontariato non deve far pesare questa sua connotazione liberale, quasi che il lavoro degli altri fosse prodotto da interessi puramente mercantili. Semmai deve collocarsi come provocazione o come segno perché chi fa un lavoro retribuito dia alla sua azione le cadenze della gratuità
In secondo luogo il volontariato deve trovare rapporti nuovi con la platea. Col pubblico dei poveri e degli emarginati nei confronti dei quali deve sentirsi beneficiato più che benefattore: perché i poveri, gli esclusi e reietti hanno da donarci tanto.
Vi ricordate quel ritornello di Fabrizio De André: “ Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”?
Quanto hanno da darci i poveri oggi!

Ricconnotarsi

Anzitutto, tenendo presente che il volontariato meridionale (ma non solo meridionale) deve esprimersi in un contesto caratterizzato dalla caduta della legalità.
È impazzita la legge (nomos) che regola la conduzione della casa (oikia). È saltata, cioè, l’economia.
Le regole di condotta, indispensabili in ogni ordinata società, sono state soppiantate da altre regole che privilegiano la forza sulla giustizia, l’arbitrio sul diritto, il “fai da te” sugli articoli di legge, il «self-service» normativo sulle istanze del bene comune legittimamente codificate. Assistiamo, cioè, all’eclisse della legalità. Viene meno la pratica e il rispetto delle leggi, mentre si incurva la fiducia nella cultura della norma. Questo precipitare a picco della fiducia nella legge ha offerto buoni motivi per »organizzare la disorganizzazione”. Sono proliferate, così, le molteplici organizzazioni mafiose, fortemente modernizzate e interdipendenti, che poggiando su logiche clientelari, rappresentano un’opportunità concreta di accedere alla ricchezza, al consumo, all’accaparramento delle risorse, all’attività imprenditoriale Di questa situazione il volontariato oggi non può non tener conto per calibrare il suo intervento e per prepararsi anche al martirio. Perché, se è vero che ci si deve schierare, è chiaro che si deve passare dall’altra parte del potere, si deve passare il guado, si deve smettere con i complici silenzi, si deve rischiare la pelle (si deve scendere nella navata della piazza e diventare mistici dell’impegno sociale) dopo aver attinto alla linfa della fede antica nel presbiterio del tempio.
In secondo luogo, organizzando la resistenza, disegnando strategie non violente, promuovendo clamorose obiezioni di coscienza al potere dei capi, alla giustizia sommaria, alle feste patronali in cui spesso il mafioso del posto vuole consolidare la sua immagine e consolidare il suo potere apparendo come persona di chiesa e ad essa collaterale, rispondendo alle sfide dei potenti mafiosi: voi sparerete le vostre lupare, noi suoneremo le nostre campane.
In terzo luogo, coltivando l’ansia profonda di solidarietà presente nel Sud istintivamente portato alla costruzione di una civiltà multirazziale, multietnica, multireligiosa. C’è nel meridione una innata disponibilità all’accoglienza del diverso. Non per nulla il Mezzogiorno è divenuto crocevia privilegiato delle culture mediterranee, vede moltiplicarsi al suo interno le esperienze di educazione alla pace, si riscopre come spazio di fermentazione per le logiche della nonviolenza attiva, avverte come contrastante con la sua vocazione naturale i tentativi di militarizzazione del territorio, e vi si oppone con forte determinazione.
In quarto luogo, assumendo le categorie della pace e della nonviolenza attiva per risanare i ritardi del Mezzogiorno.
L’Europa che nasce deve fare i conti con il Sud d’Italia, il quale nella sua coscienza emergente, si rifiuta di assolvere al ruolo di «icona della subalternanza» per tutti i Sud della terra, ma vuole sempre più decisamente presentarsi alla ribalta mondiale come «icona del riscatto» dalle antiche schiavitù.
Ed è in forza di questo riscatto che il Sud d’Italia respinge la prospettiva di essere utilizzato come baluardo militare dell’Europa protesa nel Mediterraneo come arco di guerra e non come arca di pace. E, infine, assumendo la speranza come filo rosso che attraversa il nostro impegno e sostiene il nostro messaggio il quale, in fondo, è un messaggio di liberazione.

don Tonino Bello

«Mosaico di pace», IV (1993), n. 12 p. 24-26. Intervento pronunciato al convegno del Volontariato Meridionale, Paestum, gennaio 1991.