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UNDICESIMA GIORNATA ECUMENICA DEL DIALOGO

LETTERA ALLE DONNE E AGLI UOMINI DI

BUONA VOLONTA’ IN OCCASIONE

DELL’UNDICESIMA GIORNATA

ECUMENICA DEL DIALOGO

di Brunetto Salvarani

Cari amici e amiche, fratelli e sorelle,

il 27 ottobre 2012 celebreremo per l’undicesima volta la Giornata ecumenica del dialogo cristianoislamico. Lo faremo con gioia, e lo faremo in tanti, non solo cristiani e musulmani! Anche se, bisogna ammetterlo, è difficile, e anche faticoso, parlare di dialogo oggi. Eppure occorre farlo; ma verrebbe voglia di discutere d’altro, perché – ancora una volta – l’impressione generale al riguardo è di una stanchezza infinita, e di un ben scarso investimento da parte delle chiese e degli altri soggetti potenzialmente coinvolti. Si tratta di sensazioni consolidate, del resto, da tempo, e assai note non solo agli addetti ai lavori, ma anche a quanti, più o meno occasionalmente, se ne sono occupati negli ultimi anni. Eppure, questa undicesima giornata, che ci invita a prendere sul serio la laicità dello stato come base indispensabile per giungere alla casa comune delle fedi di cui il nostro paese mostra un disperato bisogno, rappresenta un’occasione da non sprecare per riflettere tanto sullo stato dei processi di dialogo interreligioso, da una parte; quanto sulle motivazioni dell’odierna situazione di stallo, dall’altra. Personalmente, nonostante tutto, sull’esperienza del dialogo – praticato, tentato, deluso, rilanciato – ho investito nel corso di parecchi anni, insieme a molti amici e amiche, una buona quantità di tempo, viaggiando per l’Italia e raccogliendo tanto disagio e altrettante speranze. Alla luce di questa esperienza, credo di poter dire che due sono, in particolare, le ragioni della crisi sopra richiamata: esse toccano nel profondo il cammino delle chiese e delle altre comunità religiose che affollano le nostre città nell’attuale fase di passaggio dalla religione dell’Italia all’Italia delle religioni.

In primo luogo, mi rifaccio a una considerazione preziosa del cardinal Martini, appena scomparso, che non posso non ricordare come un autentico, straordinario uomo di dialogo. Che, in effetti, questo primariamente è stato, non dedicandosi peraltro a uno specifico settore, in quanto consapevole che porsi in dialogo è uno stile complessivo di chiesa e di vita, non un ambito particolare su cui investire. Riflettendo sul rapporto fra chiesa e Israele a Vallombrosa durante un Colloquio internazionale, oltre un quarto di secolo fa, Martini sosteneva che tale processo è destinato a cambiarci, noi e le nostre comunità. Fino ad affermare esplicitamente che il dialogo cristiano-ebraico “si è fatto più preciso e decisivo per il futuro stesso della chiesa. La posta in gioco non è semplicemente la maggiore o minore continuazione vitale di un dialogo, bensì l’acquisizione della coscienza, nei cristiani, dei loro legami con il gregge di Abramo e le conseguenze che ne deriveranno sul piano dottrinale, per la disciplina, la liturgia, la vita spirituale della chiesa e addirittura per la sua missione nel mondo d’oggi”. La considerazione, ovviamente, si può allargare agli altri ambiti del dialogo, pur conservando una specificità, in chiave cristiana, per quello con l’Israele vivente. Ecco: se il dialogo, in questi giorni cattivi (Ef 5,16), è in crisi, lo è in primo luogo perché quanti vi si sono spesi nel mezzo secolo che ci separa dai vagiti iniziali del Concilio Vaticano II – timorosi, speranzosi o dichiaratamente prevenuti – hanno dovuto prendere atto che esso non si lascia marginalizzare. Se assunto realmente come caso serio, mette in discussione radicalmente opinioni e stili di chiesa consolidati, punti di vista ritenuti definitivi, atteggiamenti mentali depositari. In una parola, ebraicamente, spinge inevitabilmente a una teshuvà; oppure, alla maniera del Nuovo Testamento, allametànoia. Non accetta mezze misure, doppiopesismi, dilazioni. Come il giovane ricco in fuga di fronte a Gesù, rabbuiato perché aveva molti beni (Mc 10,17-22), di fronte al dialogo si può solo prendere o lasciare. E se il quieto vivere spingerebbe a lasciare, l’adesione al vangelo costringe a prendere.

In secondo luogo, l’idea di dialogo, nonostante il fastidio che produce in vari ambienti e la deriva retorica cui è ormai sottoposta, in realtà non è scomparsa, ma piuttosto si è trovata relegata di fatto ai margini della pastorale. In concreto, diciamo così, ha cambiato indirizzo: diventando spesso un dialogo laico sia nel metodo sia nei soggetti coinvolti, un dialogo di cittadini attivi nella promozione sociale più che di specialisti o di accademici, un dialogoextra muros più che intra muros. Perché la com/presenza nello stesso territorio di differenze nazionali, linguistiche, religiose, comporta necessariamente trasformazione notevoli non solo a livello delle forme religiose, ma anche sul piano istituzionale, strutturale, politico e legislativo. Così, vanno moltiplicandosi laboratori in progress i cui protagonisti sono sindaci e assessori, operatori sociali e culturali, insegnanti e persone comuni: laboratori sempre più contagiosi e considerabili la normalità più che solo una pur felice eccezione. Da accostare, certo, ai dialoghi di vertice i cui protagonisti sono invece i leader religiosi: utili, ma – come credo si sia ormai colto – insufficienti a produrre quel clima dialogico, di curiosità e accoglienza vicendevole di cui ci sarebbe un’estrema necessità.

Con i più fraterni auguri di shalom – salaam – pace

Brunetto Salvarani

Carpi, 23/10/2012