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Editoriale: Conservare la speranza nel tempo della precarietà e della crisi

di Valentino Scordino

In un casolare delle campagne del mantovano, qualche giorno fa è morto un uomo di 43 anni. Per il freddo. Ho cercato invano il suo nome sui giornali, nei motori di ricerca del web. Niente. L’unico elemento aggiuntivo fornito da qualche media è che era indiano e clandestino. Questa cosa del nome mi ha fatto riflettere perché è la prova più efficace dell’annichilimento di un uomo, morto di freddo nella ricca campagna lombarda dell’Italia, ottava potenza economica del mondo. Allo Yad Vashem di Gerusalemme, nel Memorial dei bimbi morti nei campi di sterminio, c’è una voce che, ininterrottamente, giorno e notte, ripete incessantemente il nome, l’età e la nazionalità dei bimbi uccisi nella Shoà. Nella cultura ebraica fare memoria del nome è il modo per tenere in vita quella persona, per continuare a darle dignità. Cioè per realizzare il risultato opposto a quello che avrebbero voluto i nazisti. Molte volte sono stato a Yad Vashem, ed ogni volta riascoltare quei nomi è stato un conforto nel dramma e nella devastazione. La grande tragedia di questo tempo sono i tanti “senzanome”. I milioni di dimenticati del mondo. A più di sessant’anni dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, con tanta sofferenza , si deve spesso constatare la globalizzazione delle violazioni più che quella della loro affermazione. A livello planetario, ormai da tempo alla regia politico-militare si è sostituita quella economico-finanziaria. Con grande preponderanza di quella finanziaria. Sono entrate in gioco le grandi banche e le oramai famose agenzie di rating, quelle organizzazioni private che possono determinare la distruzione di uno Stato nel giro di poche settimane senza sganciare neppure una bomba. Un semplice comunicato con un giudizio negativo può fare cadere un governo e lasciare nella miseria e nella disperazione milioni di persone. Portogallo, Irlanda, Spagna, Grecia, Italia. Chi saranno le prossime vittime di questo gioco al massacro che J. Galbraith, economista, definisce “la più gigantesca truffa della storia”? Quando saremo capaci di assumere la consapevolezza che questo sistema centrato sull’ideologia e la pratica neoliberista rappresentano, come afferma Z. Bauman, “un sistema parassitario” che divora tutto quello che incontra sulla sua strada? Per ora una sola certezza: sono i popoli che pagano il prezzo di tutto ciò e non è solo un caso che nella vecchia cara Europa, le variazioni degli indici di borsa e i saltelli dello spread tra i titoli di stato italiani e quelli tedeschi, siano un modo elegante e apparentemente serio per cancellare i diritti e i sistemi di protezione sociale. George Bernanos ha scritto:Chi non ha visto la strada all’alba, tutta fresca e palpitante nelle sue due fila d’alberi, non sa cos’è la speranza”. Ecco, forse è ancora (o è già…) l’alba e la strada s’intravede. Ci vuole coraggio ad avere speranza nel tempo della crisi. Eppure tanti sono i segni che incoraggiano: è evidente che si diffonde una nuova coscienza degli oppressi. Occupy Wall Street, le diverse primavere arabe, i numerosissimi indignados, i gruppi che si attivano per il cambiamento sociale attraverso i social network, i dibattiti sul web, i blogger, le assemblee autoconvocate di tanti cittadini nelle diverse parti del mondo, le molteplici forme di democrazia partecipata, di informazione partecipata, sono tutti segni della crescente coscientizzazione degli oppressi. Non tutte luci, certamente, e molte ombre. Tuttavia sono tutte espressioni di una nuova consapevolezza che si fa strada nel “popolo della base” di fronte ai numerosi e diversi dispotismi delle élite e delle egemonie finanziarie, politiche e in, in molti casi, criminali. Tanti semi di speranza ci vengono anche dai diversi Sud del mondo e tutto questo ci dà sempre più la certezza che un mondo nuovo è possibile. E allora: che ti sia lieve la terra, fratello indiano clandestino “senzanome”.