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Un mondo senza armi è possibile

Nel tradizionale discorso di inizio anno al corpo diplomatico, il 9 gennaio scorso il papa affronta il difficile panorama internazionale partendo dall’invito a sperare in modo realistico e coraggioso. Il discorso  lunghissimo (se ne riporta una parte) e cita tutti i conflitti aperti o dimenticati. Verso la conclusione riprende il forte monito riguardante il disarmo nucleare citando i suoi interventi a Hiroshima e a Nagasaki e auspicando una riforma del sistema ONU (s.p.) 

Eccellenze, Signore e Signori,  un nuovo anno si apre dinanzi a noi e, come il vagito di un bimbo appena nato, ci invita alla gioia e ad assumere un atteggiamento di speranza. Vorrei che questa parola – speranza –, che per i cristiani è una virtù fondamentale, animasse lo sguardo con cui ci addentriamo nel tempo che ci attende.

Certo, sperare esige realismo. Esige la consapevolezza delle numerose questioni che affliggono la nostra epoca e delle sfide all’orizzonte. Esige che si chiamino i problemi per nome e che si abbia il coraggio di affrontarli. Esige di non dimenticare che la comunità umana porta i segni e le ferite delle guerre succedutesi nel tempo, con crescente capacità distruttiva, e che non cessano di colpire specialmente i più poveri e i più deboli [1]. Purtroppo, il nuovo anno non sembra essere costellato da segni incoraggianti, quanto piuttosto da un inasprirsi di tensioni e violenze.È proprio alla luce di queste circostanze che non possiamo smettere di sperare. E sperare esige coraggio. Esige la consapevolezza che il male, la sofferenza e la morte non prevarranno e che anche le questioni più complesse possono e devono essere affrontate e risolte. La speranza «è la virtù che ci mette in cammino, ci dà le ali per andare avanti, perfino quando gli ostacoli sembrano insormontabili». […] la speranza non è un’utopia e la pace è un bene sempre possibile.   Lo abbiamo visto nel modo con cui molti giovani si stanno impegnando per sensibilizzare i leader politici sulla questione dei cambiamenti climatici. La cura della nostra casa comune dev’essere una preoccupazione di tutti e non oggetto di contrapposizione ideologica fra diverse visioni della realtà, né tantomeno fra le generazioni, poiché «a contatto con la natura – come ricordava Benedetto XVI–, la persona ritrova la sua giusta dimensione, si riscopre creatura, piccola ma al tempo stesso unica, “capace di Dio” perché interiormente aperta all’Infinito». La custodia del luogo che ci è stato donato dal Creatore per vivere non può dunque essere trascurata, né ridursi ad una problematica elitaria. I giovani ci dicono che non può essere così, poiché esiste una sfida urgente, a tutti i livelli, di proteggere la nostra casa comune e «di unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale». Essi ci richiamano all’urgenza di una conversione ecologica, che «va intesa in maniera integrale, come una trasformazione delle relazioni che intratteniamo con le nostre sorelle e i nostri fratelli, con gli altri esseri viventi, con il creato nella sua ricchissima varietà, con il Creatore che è origine di ogni vita»[…].

Queste considerazioni riportano la nostra attenzione all’America Latina, in particolare all’Assemblea speciale del Sinodo dei vescovi per la regione amazzonica, svoltasi in Vaticano lo scorso mese di ottobre. Il Sinodo è stato un evento essenzialmente ecclesiale, mosso dalla volontà di mettersi in ascolto delle speranze e delle sfide della Chiesa in Amazzonia e di aprire nuove strade all’annuncio del Vangelo al Popolo di Dio, specialmente alle popolazioni indigene. Tuttavia, l’Assemblea sinodale non poteva esimersi dal toccare anche altre tematiche, a partire dall’ecologia integrale, che riguardano la vita stessa di quella Regione, così vasta e importante per tutto il mondo, poiché «la foresta amazzonica è un “cuore biologico” per la Terra, sempre più minacciata».

Oltre alla situazione nella regione amazzonica, desta preoccupazione il moltiplicarsi di crisi politiche in un crescente numero di Paesi del continente americano […].  In generale, i conflitti della regione americana, pur avendo radici diverse, sono accomunati dalle profonde disuguaglianze, dalle ingiustizie e dalla corruzione endemica, nonché dalle varie forme di povertà che offendono la dignità delle persone. Occorre, pertanto, che i leader politici si sforzino di ristabilire con urgenza una cultura del dialogo per il bene comune e per rafforzare le istituzioni democratiche e promuovere il rispetto dello stato di diritto, al fine di prevenire derive antidemocratiche, populiste ed estremiste.Nel mio secondo viaggio del 2019, mi sono recato negli Emirati Arabi Uniti, prima visita di un Successore di Pietro nella Penisola arabica. Ad Abu Dhabi ho firmato con il Grande Imam di Al-Azhar Ahmad al-Tayyib il Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale.  Si tratta di un testo importante, volto a favorire la mutua comprensione tra cristiani e musulmani e la convivenza in società sempre più multietniche e multiculturali, poiché nel condannare fermamente l’uso del «nome di Dio per giustificare atti di omicidio, di esilio, di terrorismo e di oppressione», richiama l’importanza del  concetto di cittadinanza, che «si basa sull’eguaglianza dei diritti e dei doveri sotto la cui ombra tutti godono della giustizia» […].

Un più assiduo ed efficace impegno da parte della Comunità internazionale è quanto mai urgente anche in altre parti dell’area mediterranea e del Medio Oriente.  Mi riferisco anzitutto alla coltre di silenzio che rischia di coprire la guerra che ha devastato la Siria nel corso di questo decennio. È particolarmente urgente trovare soluzioni adeguate e lungimiranti che permettano al caro popolo siriano, stremato dalla guerra, di ritrovare la pace e avviare la ricostruzione del Paese. La Santa Sede accoglie con favore ogni iniziativa volta a porre le basi per la risoluzione del conflitto ed esprime ancora una volta la propria gratitudine alla Giordania e al Libano per aver accolto ed essersi fatti carico, con non pochi sacrifici, di migliaia di profughi siriani. Purtroppo, oltre alle fatiche provocate dall’accoglienza, altri fattori di incertezza economica e politica, in Libano e in altri Stati, stanno provocando tensioni tra la popolazione, mettendo ulteriormente a rischio la fragile stabilità del Medio Oriente. […].   L’Europa non perda dunque il senso di solidarietà che per secoli l’ha contraddistinta, anche nei momenti più difficili della sua storia. Non perda quello spirito che affonda le sue radici, tra l’altro, nella pietas romana e nella caritas cristiana, che ben descrivono l’animo dei popoli europei. L’incendio della Cattedrale di  Notre Dame a Parigi ha mostrato quanto sia fragile e facile da distruggere anche ciò che sembra solido. I danni sofferti da un edificio, non solo caro ai cattolici ma significativo per tutta la Francia e l’umanità intera, hanno ridestato il tema dei valori storici e culturali dell’Europa e delle radici sulle quali essa si fonda. In un contesto in cui mancano valori di riferimento, diventa più facile trovare elementi di divisione più che di coesione. Il trentesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino ci ha posto dinanzi agli occhi uno dei simboli più laceranti della storia recente del continente, rammentandoci quanto sia facile ergere barriere. Il Muro di Berlino rimane emblematico di una cultura della divisione che allontana le persone le une dalle altre e apre la strada all’estremismo e alla violenza. Lo vediamo sempre più nel linguaggio di odio diffusamente usato in internet e nei mezzi di comunicazione sociale.  Alle barriere dell’odio, noi preferiamo i ponti della riconciliazione e della solidarietà, a ciò che allontana preferiamo ciò che avvicina, consapevoli che «nessuna pace [può] consolidarsi […] se contemporaneamente non si placano gli odi e i rancori per mezzo di una riconciliazione fondata sulla vicendevole carità»[18], come scrisse cent’anni fa il mio predecessioe Benedetto XV. […] in Giappone ho toccato con mano il dolore e l’orrore che come esseri umani siamo in grado di infliggerci.  Ascoltando le testimonianze di alcuni Hibakusha, i sopravvissuti ai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki, mi è parso evidente che non si può costruire una vera pace sulla minaccia di un possibile annientamento totale dell’umanità provocato dalle armi nucleari. Gli Hibakusha «mantengono viva la fiamma della coscienza collettiva, testimoniando a generazioni successive l’orrore di ciò che accadde nell’agosto del 1945 e le sofferenze indicibili che ne sono seguite fino ad oggi. La loro testimonianza risveglia e conserva in questo modo la memoria delle vittime, affinché la coscienza umana diventi sempre più forte di fronte ad ogni volontà di dominio e di distruzione», specialmente quella provocata da ordigni a così alto potenziale distruttivo, come le armi nucleari. Esse non solo favoriscono un clima di paura, diffidenza e ostilità, ma distruggono la speranza. Il loro uso è immorale, «un crimine, non solo contro l’uomo e la sua dignità, ma contro ogni possibilità di futuro nella nostra casa comune».

Un mondo «senza armi nucleari è possibile e necessario», ed è tempo che quanti hanno responsabilità politiche ne divengano pienamente consapevoli, poiché non è il possesso deterrente di potenti mezzi di distruzione di massa a rendere il mondo più sicuro, bensì il paziente lavoro di tutte le persone di buona volontà che si dedicano concretamente, ciascuno nel proprio ambito, a edificare un mondo di pace, solidarietà e rispetto reciproco. Il 2020 offre un’opportunità importante in questa direzione, poiché dal 27 aprile al 22 maggio si svolgerà a New York la X Conferenza d’Esame del Trattato di non proliferazione delle armi nucleari. Auspico vivamente che in quella occasione la Comunità internazionale riesca a trovare un consenso finale e proattivo sulle modalità di attuazione di questo strumento giuridico internazionale, che si rileva essere ancora più importante in un momento come quello attuale.
Quest’anno, la Comunità internazionale ricorda  il 75° anniversario della fondazione delleNazioni Unite. In seguito alle tragedie sperimentate nelle due guerre mondiali, con la  Carta delle Nazioni Unite, firmata il 26 giugno 1945, quarantasei Paesi diedero vita ad una nuova forma di collaborazione multilaterale. Le quattro finalità dell’Organizzazione, delineate nell’ articolo 1 della Carta, rimangono valide ancora oggi e possiamo dire che l’impegno delle Nazioni Unite in questi 75 anni è stato, in gran parte, un successo, specialmente nell’evitare un’altra guerra mondiale. I principi fondativi dell’Organizzazione – il desiderio della pace, la ricerca della giustizia, il rispetto della dignità della persona, la cooperazione umanitaria e l’assistenza – esprimono le giuste aspirazioni dello spirito umano e costituiscono gli ideali che dovrebbero sottostare alle relazioni internazionali.  In questo anniversario, vogliamo riaffermare il proposito di tutta quanta la famiglia umana a operare per il bene comune, quale criterio di orientamento dell’azione morale e prospettiva che deve impegnare ogni Paese a collaborare per garantire l’esistenza e la sicurezza nella pace di ogni altro Stato, in uno spirito di uguale dignità e di effettiva solidarietà, nell’ambito di un ordinamento giuridico fondato sulla giustizia e sulla ricerca di equi compromessi.  Ma tale azione sarà tanto più efficace quanto più si cercherà di superare quell’approccio trasversale, utilizzato nel linguaggio e negli atti degli organi internazionali, che mira a legare i diritti fondamentali a situazioni contingenti, dimenticando che essi sono intrinsecamente fondati nella natura stessa dell’essere umano. Laddove al lessico delle Organizzazioni internazionali viene a mancare un chiaro ancoraggio oggettivo, si rischia di favorire l’allontanamento, anziché l’avvicinamento, dei membri della Comunità internazionale, con la conseguente crisi del sistema multilaterale, che è tristemente sotto gli occhi di tutti.  In questo contesto, appare urgente riprendere il percorso verso una complessiva riforma del sistema multilaterale, a partire dal sistema onusiano, che lo renda più efficace, tenendo in debita considerazione l’attuale contesto geo-politico.

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