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don Tonino 20anni fa e gli albanesi di oggi

Era l’8 agosto 1991. Nell’inferno dei 20.000 disperati albanesi non ci sono autorità ma il vescovo Tonino Bello, a protestare. Lui che non vedeva una turba indistinta ma “i volti dei giovani albanesi uno per uno. Anzi non proprio loro, ma per trasposizione i volti di chi li ha generati: le madri gravide al posto dei figli sul molo. E ho pensato: chissà quante carezze su quei ventri in attesa, quante tenerezze a levigarne la rotondità, quanti baci a benedire l’attesa; chissà quante parole d’affetto sussurrate su quelle cupole, perché arrivasse l’eco nel ricettacolo più profondo; e chissà quante scommesse, e quante ambizioni, e quanti progetti sul frutto di quell’amore gestante. Poi, che ne è? Lo scempio che constatiamo! Gemme sfo gliate… petali al vento. No, non è giusto! Quei giovani vanno rispettati e amati. Uno per uno. Come se di ciascuno fossimo madre» .

Quelle due sorelline
notate da don Tonino
nell’inferno della Vlora

Esattamente vent’anni fa, l’8 agosto 1991, arrivò nel porto di Bari la nave «Vlora» carica di 20.000 albanesi. Fu una vicenda che ha segnato la storia di Bari, della Puglia e dell’emigrazione in Italia. Il Comune di Bari ha ricevuto nei giorni scorsi dal presidente della repubblica albanese, Bamir Topi, la medaglia della riconoscenza. Noi ricordiamo quell’evento con la testimonianza inedita di Renato Brucoli, che ricorda l’incontro di don Tonino Bello con quell’umanità disperata
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di RENATO BRUCOLI
Era il 10 agosto 1991: afa fin dal mattino. La gente ai bagni a spegnere la calura. Lui, don Tonino Bello, a ulcerarsi per il dramma dei profughi albanesi nel porto di Bari, al secondo esodo di massa verso l’Italia. Tristissimo. Il volto contratto. Non una parola di commento alle immagini che si accavallano nei Tg. Ecco la Vlora che vomita migliaia di giovani in fuga dal regime di Hoxha, che maledicono la miseria più nera e si azzuffano e si aiutano nella disperazione, che si fanno cercatori di futuro a rischio della vita. Ecco la proposta di don Tonino: andiamo? Andiamo allo stadio «della Vittoria».

Perimetro di sconfitta. Andiamo al molo dodici. Scenario disperato. Lungo la litoranea, la spiaggia brulicante. Fra lo stadio e il porto, scampoli d’umanità in un clima infernale. In 20.000 ammassati – donne, giovani, bambini; onesti, ladri, violenti – in poche centinaia di metri quadrati. Sul molo svengono per insolazione, per disidratazione: in molti cadono collassati a causa dei quaranta gradi che fanno ribollire perfino il manto d’asfalto sotto i nostri piedi. Inerti vengono tirati per le braccia oltre il cordone militare come sacchi di patate. Un getto d’acqua rigorosamente non potabile, il capo accenna un movimento: «Indietro!», nella turba, a consumare la speranza residuale di un’accoglienza che non ci sarà.

«C’è il ministro della Protezione civile? Quello degli Interni? Desidero invocare un trattamento più umano», è il grido di don Tonino Bello. Ma i ministri non ci sono. Sono di Napoli e di Bari, sì proprio di Bari, ma non ci sono. Fra le autorità, solo il sindaco Dalfino è indaffarato e segnato. Non altri. Non ci sono i graduati fra i militari né i medici al posto di pronto soccorso. Sono al limite di sopportazione i militari d’ordine pubblico. Lamentano il turno di otto ore ancora senza cambio. Disfatti i salpati dal porto di Durazzo: due giorni di viaggio e altri tre all’addiaccio in condizioni proibitive. Persino l’occhio della Rai si vergogna a riprenderli con insistenza. Anche lo Stadio della Vittoria è circondato dal cordone della forza pubblica.

Gli albanesi sono nel perimetro ovale del campo di calcio, come i cileni del ’73, concentrati nell’estadio nacional di Santiago. Non molti, al di fuori, contenuti da transenne e da militari di leva. Questuano un po’ d’acqua o di latte, qualche arancia. Frutti e cartocci vengono lanciati loro a distanza, come fossero animali in gabbia. C’è anche la polizia, che di tanto in tanto carica: al minimo sussulto, a ogni tentativo di margine valicato. Il limite deve tenere. Va evitato l’abbraccio fra i profughi e i pochi accoglienti. Al di là del cordone militare, una bambina di sei o sette anni: riconosce la sorella più grande al di qua. È in Puglia dal primo esodo. Entrambe vorrebbero varcare lo sbarramento disumano che le contiene. Si chiamano a distanza, si fanno eco. Si lanciano baci e tenerezze con il linguaggio dei gesti. Accarezzano l’aria, l’una alla ricerca dell’altra. Si protendono, vogliono abbracciarsi. Lo dicono supplicanti nella loro lingua alla polizia che non può capire, che non vuol capire.

Lo ribadiscono al “prete ” che ho al fianco: «Prete, lo chieda lei per noi, lei che porta la croce». Di legno. Come quella su cui è salito Cristo. Come quella su cui sarebbe salito, di lì a qualche settimana, anche don Tonino Bello, divorato dal cancro allo stomaco per aver somatizzato gli eventi. Il “prete” supplica anch’egli: «Sono sorelle, lasciate che si abbraccino». Come ricordo, don Tonino, quando ce ne siamo tornati in auto a Molfetta, nell’ostensorio della tua Cinquecento dipinta di blu; silenti, impotenti, “conflitti ma non sconfitti”.

«Lo so perché non parli – ti ho sollecitato per lacerare il silenzio -: perché vagheggi arche di pace che solchino il Mediterraneo a ricomporre l’umanità, a riunire la famiglia umana, e sperimenti boat-people risucchiate dal mare grosso se non addirittura all’ancora, rifiutate e pronte a ripartire».
Mi hai risposto: «C’è stato un momento in cui ho visto meglio: non quella turba indistinta ma i volti dei giovani albanesi uno per uno. Anzi non proprio loro, ma per trasposizione i volti di chi li ha generati: le madri gravide al posto dei figli sul molo. E ho pensato: chissà quante carezze su quei ventri in attesa, quante tenerezze a levigarne la rotondità, quanti baci a benedire l’attesa; chissà quante parole d’affetto sussurrate su quelle cupole, perché arrivasse l’eco nel ricettacolo più profondo; e chissà quante scommesse, e quante ambizioni, e quanti progetti sul frutto di quell’amore gestante. Poi, che ne è? Lo scempio che constatiamo! Gemme sfo gliate… petali al vento. No, non è giusto! Quei giovani vanno rispettati e amati. Uno per uno. Come se di ciascuno fossimo madre» .

Altroché se lo ricordo, quel momento estatico. Da allora m’interrogo se e quando metterà radici l’etica del volto, che è la profezia più vera di don Tonino Bello: la scoperta dell’altro, uguale nella distinzione. Da allora m’interrogo se la fraternità e l’amore hanno occhi di madre. Se la femminilità non sia il valore da liberare per rigenerare la storia. Se la teologia non debba finalmente arricchirsi della riflessione su Diomadre… Natali che non possono tardare. Di barconi pieni di umanità alla deriva, continuano ad arrivarne. Non più a Bari, ma a Lampedusa sì. Sono passati vent’anni. Il ricordo s’impone d’attualità