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da Genova 2001 alla città dei beni comuni 2011

In questi mesi è riemerso un tesoro. Per dieci anni, o poco meno, si era inabissato. Il G8 di Genova, nel 2001, e l’arcobaleno delle manifestazioni oceaniche contro la guerra in Iraq, nel 2002, sono rimasti i frutti più copiosi di quel periodo, poi sepolti.
Ecco. È come se si fosse detto basta. Come se si fosse alzata la paletta rossa. Stop. Fermiamoci. Si è ridato linfa a parole appassite: dignità, responsabilità, coraggio, giustizia.

Italiani (cristiani) in movimento

Alla luce del referendum del 12 e 13 giugno, una riflessione sulla rinascita in corso dei movimenti, uniti nel segno dei “beni comuni” da proteggere.
In questi mesi è riemerso un tesoro. Per dieci anni, o poco meno, si era inabissato. Il G8 di Genova, nel 2001, e l’arcobaleno delle manifestazioni oceaniche contro la guerra in Iraq, nel 2002, sono rimasti i frutti più copiosi di quel periodo, poi sepolti. Per anni, in molti ci siamo affidati a un ineluttabile avvicendarsi delle stagioni: le abbiamo osservate, anche criticate, ma sempre da spettatori. Mai da protagonisti. Per tanto, troppo tempo, siamo stati anestetizzati. Indifferenti.

È vero, ogni tanto spuntavano qua e là eccezioni (“No Tav”, popolo della pace, solidarietà con i migranti…), ma senza mai che alcuna di queste mobilitazioni spiccasse il volo. Com’è invece accaduto con i referendum del 12 e 13 giugno scorso e con le azioni che li hanno preceduti negli ultimi mesi.
Una quantità e qualità della mobilitazione tali che a qualcuno hanno fatto tornare in mente la parola e il senso del “movimento”. Anche se lo stare assieme di oggi – effervescente, fantasioso, ma assai frammentato – ha connotati e dinamiche diversi rispetto a quello d’inizio millennio. Ostinarsi a leggere e interpretare ciò che succede ora nel nostro paese con il vecchio lessico e con i vecchi schemi sarebbe un grave errore.
Tuttavia, non si può negare che almeno un protagonista ritorna sulla scena pubblica: il senso di responsabilità individuale nelle scelte collettive. La saggezza del cittadino. In fondo, cosa sono stati i “sì” referendari se non un identificare la politica con ciò che è giusto e conveniente per la società tutta? Per anni la maggior parte di noi si era interessata, tutt’al più, a curare al meglio il suo giardino. Oggi lo slogan sulla bocca di tanti è “difendere i beni comuni”.

Una scelta non improvvisa. Una rabbia, quella esplosa, figlia di un lavoro ostinato, silenzioso e sotterraneo. E di una stanchezza. Siamo arrivati a un punto così elevato di mercificazione della nostra vita che anche le relazioni personali sono diventate come i prodotti studiati e programmati per un’obsolescenza precoce. Rapporti che muoiono all’alba. Restiamo indifferenti quando dobbiamo sostituire un volto con un altro. Abbiamo vissuto e applicato un’accelerazione del consumo nei rapporti umani come fossero prodotti da supermarket.

Ecco. È come se si fosse detto basta a tutto ciò. Come se si fosse alzata la paletta rossa. Stop. Fermiamoci. Si è ridato linfa a parole appassite: dignità, responsabilità, coraggio, giustizia.
E se è vero che il caso italiano ha le sue specificità, non possiamo non sentire, tuttavia, come refoli d’indignazione salgano anche dalla Spagna, dal Portogallo, dal Maghreb, da molti paesi arabi e da alcuni africani.

Un vento di richieste che partono dal basso. Che utilizza gli strumenti della Rete e i social network per aggregare. Che non si accontenta delle risposte dei potenti. Che è capace di disubbidire e dissentire, recuperando due virtù democratiche per eccellenza. Un vento che segnala la primavera dei giovani.
Ma per non far inabissare di nuovo questo movimento, soprattutto in Italia, perdendo così le potenzialità che potrebbe sprigionare, va innanzitutto capito come funziona (Web + piazza); che rapporto ha con le strutture organizzate (partiti, sindacati, mondo associativo…); quali classi sociali e classi d’età coinvolge maggiormente; quali tratti lo contraddistinguono (nonviolenza, sobrietà, competenza, fede, frammentazione, gente che sente di non avere altra scelta, riprendersi la propria vita…); quale ruolo giocano attori importanti come i cattolici.

È una partita aperta. Una sfida. Anche per la chiesa. Per le sue strutture locali. Per le sue comunità. Com’era successo a Genova nel 2001 e poi nelle mobilitazioni per la pace degli anni successivi, molti cattolici, sacerdoti, suore, missionari/e si sono impegnati in prima fila sui referendum, schierandosi per i “sì”, soprattutto per quello dell’acqua pubblica. Perché non sono temi “altri” rispetto a quelli evangelici. P. Alex Zanotelli ha commentato la vittoria referendaria, ricordando che dalle urne è uscita «la proclamazione della vita contro l’idolatria della finanza », i cui unici valori sono quelli quotati in Borsa.

Restano vescovi e preti locali che non colgono l’importanza di queste battaglie. Che non sanno o dimenticano che ogni questione locale ha ripercussioni globali e che, dunque, impegnarsi per i “beni comuni” significa avere consapevolezza che nella partita c’è anche il sud del mondo.
Ma è la politica che non può restare sorda a ciò che arriva dalla pancia della società. Mercificare tutto. Valutare i rapporti e le relazioni solo in base alla fedeltà cieca e acritica al potente di turno. Restare indifferenti ai cambiamenti e a scelte diverse in termini di sviluppo, di relazioni mediterranee, di migranti. Ignorare le domande e le richieste che arrivano dal basso per una nuova forma dello stare insieme. Ecco, fare tutto ciò vorrebbe dire mettere il silenziatore a quella voglia di cittadinanza ordinaria uscita dalla Rete e dalle urne. Creando smarrimento e fratture.

NIGRIZIA, editoriale del numero di luglio-agosto 2011