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Sahara Occidentale: perché i Saharawi hanno paura del milione di Obama

cartina del Sahara Occidentale

cartina del Sahara Occidentale

Gli Usa stanziano aiuti per un programma a sostegno della società civile saharawi, quasi annientata dalla repressione marocchina, ma non c’è consenso: finirebbero nelle casse di Rabat e legittimerebbero l’appropriazione del Sahara occidentale, affossando il referendum.

Gli Stati Uniti tornano a farsi sentire sulla questione saharawi, stanziando un milione di dollari per un programma che mira a “sostenere il popolo del Sahara occidentale perché formi legami significativi con le organizzazioni della società civile e del governo locale”.

Belle parole, che non smentiscono la tradizionale ansia da costruzione di democrazia promossa delle varie amministrazioni di Washington nelle numerose zone di conflitto in cui gli Stati Uniti sono più o meno invischiati, ma che non hanno alcun riscontro con la realtà: in Sahara Occidentale, infatti, la “società civile” saharawi è quasi annientata, mentre il “governo locale” è composto quasi esclusivamente dalle forze di occupazione marocchine. Se lo scopo di Obama è quello di rafforzare i saharawi piuttosto che le casse di Rabat, avvertono esperti, analisti e attivisti, questo potrebbe non essere il giusto modo per farlo.

A cominciare dalla tempistica: l’annuncio dell’invio del denaro arriva due settimane dopo l’improvvisa decisione di Rabat di espellere i funzionari civili degli uffici MINURSO, il contingente di pace delle Nazioni Unite che da venticinque anni veglia sul mantenimento del cessate il fuoco e che dovrebbe organizzare e supervisionare un eventuale referendum di autodeterminazione del popolo saharawi.

Già flebili lo scorso decennio a causa dei continui rinvii da parte del Marocco per presunti “vizi di forma” del plebiscito proposto, ora le speranze di attuare veramente un referendum sembrano sparite del tutto. A riaccendere la questione, in stallo ormai da anni, è stato proprio il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon che, visitando i campi di rifugiati saharawi a Tindouf, nel deserto algerino, ha parlato di “occupazione” del territorio da parte del Marocco: parole “imperdonabili” secondo Rabat, che mostrano una “mancanza di neutralità diplomatica” e che costituiscono una ghiotta occasione per liberarsi definitivamente del fardello del controllo internazionale sul territorio occupato.

Così, qualche giorno dopo, 84 membri dello staff civile della MINURSO si sono trovati sulle scrivanie un ordine di espulsione entro 72 ore; dopo la partenza di una parte di loro, Rabat ha fatto sapere che intende chiudere l’ufficio di collegamento militare MINURSO nella città costiera di Dakhla, quasi al confine con la Mauritania. Farhan Haq, portavoce delle Nazioni Unite, ha confermato ai giornalisti che si tratta della “prima richiesta che mira alla componente militare” del contingente. Rabat, da parte sua, è stata chiara: la decisione del Marocco di ridurre il personale delle Nazioni Unite della missione in Sahara Occidentale, ha dichiarato il ministro degli Esteri marocchino Salaheddine Mezouar, è” sovrana e irreversibile”.

Con la liquidazione – seppur lenta – della MINURSO, rischia di andarsene anche la speranza di un referendum che modifichi anche solo formalmente lo status del territorio occupato: se è vero che il Marocco non rinuncerà mai al controllo economico sul territorio desertico, ricco di fosfati e dalle coste pescosissime, una proposta di autonomia – assieme all’opzione indipendenza e sovranità totale del Marocco – è stata introdotta a partire dal 2000 dall’ex inviato speciale per le Nazioni Unite James Baker. Si tratta di una specie di devolution in cui il Marocco manterrebbe la propria presenza militare e la gestione delle risorse. Soluzione, seppur accettata in un primo momento da re Mohammed VI, ancora ferma al Palazzo di Vetro. “Il Sahara – spiega a Nena News un ufficiale della MINURSO che preferisce restare anonimo – è gestito direttamente dal re e quello che accade qui è in mano alla prefettura. E un’autonomia sarebbe pericolosa: il re non avrebbe più il controllo totale del suo territorio”.

E’ qui che entrano in gioco i fondi stanziati dall’amministrazione Obama: così com’è la situazione attuale, andrebbero direttamente nelle casse di Rabat e ne legittimerebbero l’appropriazione del Sahara Occidentale. Ed è proprio quello che sta cercando di fare la lobby marocchina all’interno del Congresso USA: con un’abile mossa diplomatica, è riuscita a far destinare i fondi di aiuto agli Stati esteri stanziati ogni anno non al Marocco stesso, bensì al territorio occupato. Il Comitato preposto allo stanziamento degli aiuti ha destinato inizialmente il milione di dollari al “sostegno delle riforme democratiche e dello sviluppo economico”, con un incoraggiamento all’amministrazione a “sostenere gli investimenti del settore privato nel Sahara occidentale”. Ma il Dipartimento di Stato, come si legge sul portale al-Monitor, ha invece “optato per concentrare i propri sforzi sulla costruzione della democrazia”.

Chiarendo che “la concessione dei fondi per un totale di un milione di dollari non riflette un cambiamento nella politica dell’amministrazione Obama di sostenere una soluzione pacifica, sostenibile e concordata al conflitto”, il Dipartimento di Stato ha spiegato in una lettera al Congresso che “questo programma affronterà i bisogni legittimi del popolo del Sahara occidentale”: intende farlo “investendo nelle organizzazioni della società civile e negli organismi rappresentativi locali per rafforzare la capacità dei cittadini di svolgere un ruolo attivo nelle decisioni che riguardano la loro vita”. Difficile, però, sostenere la “società civile saharawi” quando questa è in esilio o in prigione o chiusa in casa perché in netta minoranza: se i dati ufficiali sulla colonizzazione marocchina non esistono – si parla di 200, forse 300 mila coloni dal 1975 – i saharawi parlano di una proporzione di 1 a 9, dove 9 sta per i marocchini che continuano ad arrivare in massa. Sono i poveri del nord spediti qui dal ministero dell’Interno, mandati a sopravvivere all’ombra degli incentivi statali.

I fondi dovrebbero essere stanziati tramite il MEPI (Middle East Partnership Initiative), un organismo che incanala gli aiuti attraverso organizzazioni non-governative piuttosto che finanziando i governi. Ma a quali? Alle ONG straniere non è permesso operare in Sahara Occidentale, e gli attivisti saharawi lottano in clandestinità per non venire incarcerati o uccisi dalla polizia. “Tutte le autorità del Marocco – racconta il funzionario MINURSO a Nena News – sono impiegate qui: le forze di polizia, oltre a essere mal coordinate tra loro, sono tra le più brutali che esistano. Chi protesta viene picchiato selvaggiamente: guarda cos’è successo a Gdeim Izik”.

Gdeim Izik è stato l’ultimo, doloroso alito di visibilità internazionale che hanno avuto i saharawi. Il primo vento di primavera araba – come battezzato da molti analisti tra cui Noam Chomsky – quello che aveva fatto scattare la miccia tunisina. Nell’ottobre del 2010 era stato allestito a 13 km da el-Ayun come campo di protesta. Ma ben presto era diventato qualcosa di più: la voce di un popolo che non c’è quasi più, il contorno di una comunità che esce dall’ombra della città. La tendopoli era arrivata a contenere più di 5 mila saharawi prima che la polizia marocchina la mettesse a ferro e fuoco a novembre, provocando un numero tuttora imprecisato di morti, feriti e desaparecidos. Con le accuse di “omicidio premeditato, costituzione di banda armata e violenza contro le forze dell’ordine” – confessioni estratte, secondo gli imputati stessi, sotto tortura – 24 militanti saharawi del campo sono stati condannati a pene che vanno dai 20 anni di carcere all’ergastolo.

Per questo gli analisti avvertono: i fondi stanziati per il Sahara Occidentale, così come previsti, andranno a Rabat. Aumenteranno il controllo sulla popolazione saharawi e potenzieranno il furto delle risorse naturali da parte del Marocco. Un nuovo sostegno alla democrazia made in USA.

di Giorgia Grifoni
Roma, 13 aprile 2016, Nena News