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Com’è cambiato il mio iraq

Cartina dell'Iraq

Don Robert Saeed Jarjis, 37 anni, è un sacerdote cristiano nato e cresciuto a Baghdad. Arrivato in Italia alla fine del 2004 per i suoi studi teologici, ha girato l’Europa. Parla Italiano, Arabo, Francese, Inglese e Tedesco per poter comunicare con gli amici sparsi tra il vecchio continente, gli Stati Uniti e il Nord Africa. Ad Aprile è tornato in Iraq per occuparsi della diocesi affidatagli dal vescovo Mikhael al Jamir.

Prima la bomba esplosa fuori dalla mia parrocchia, il 19 aprile. Poi quella che la mattina di Pasqua ha ferito quattro persone davanti alla chiesa del Sacro Cuore, nel distretto di Karrada. A Baghdad rischio la vita ogni giorno per il semplice fatto di essere cristiano. Sono tornato nel Paese dove sono nato e cresciuto dopo sei anni di studio all’estero e questo potrebbe trasformarsi nella mia condanna a morte. C’è grande tensione in tutta la capitale e secondo le autorità la situazione peggiorerà: sembra che diverse auto cariche di esplosivo siano entrate in città senza alcun controllo e si temono altri attentati. Anche se l’Iraq è la mia terra, ogni volta che esco di casa per celebrare la messa o visitare i fedeli temo di essere ucciso.
Da ragazzo i miei amici musulmani mi facevano gli auguri per Natale e Pasqua e io li facevo a loro per Aid al Adha e alla fine del Ramadan.
Oggi Baghdad è tornata a essere divisa in tribù e la minoranza cristiana è più discriminata che mai, soprattutto a livello economico: gli Iracheni non danno lavoro ai loro fratelli non musulmani. Chi può scappa, fugge al nord, quelli che rimangono lo fanno solo perché sono troppo poveri per partire. Nella mia parrocchia ci sono tante famiglie che vivono in case in affitto pagando 300 mila dinari al mese (circa 250 dollari), praticamente l’intero stipendio del capofamiglia, tanto che per comprare da mangiare hanno dovuto vendere tutti i mobili. Ma non accettano di chiedere aiuto. Ho creato un fondo per aiutarle, ho addirittura regalato loro il mio primo salario, ma come posso assistere tutti? Prima non era così, non so dov’è il nuovo Iraq che ci hanno promesso e dove ci stanno portando. Il mio è un Paese ricco, ma il popolo soffre di una povertà che aumenta. E’ incomprensibile per me l’odio che ha invaso la società dagli anni Novanta, dopo la guerra del Golfo, quando è iniziato il declino economico e altre mani sono entrate negli interessi del Paese. Ma è solo dal 2003 che le ostilità sono diventate così evidenti. Quante chiese sono state bombardate, quanti preti sono stati massacrati dopo quell’anno? Addirittura lo scorso 31 ottobre una bomba è scoppiata dentro la chiesa siro-cattolica di Saiydat al-Najat (Nostra Signora della Salvezza). Sono morte 46 persone: tra loro c’erano nove bambini e due sacerdoti, i miei cari amici don Thaer e don Wasim. Avrei potuto esserci anch’io. L’invasione americana ha avuto un effetto negativo sulla situazione generale dell’Iraq. I cristiani non si sentono più al sicuro nelle case e nei luoghi di preghiera, eppure non hanno mai voluto rispondere con violenza. Però la comunità si è chiusa: per difendersi i fedeli hanno imparato a non essere solo buoni come colombe, ma sapienti come serpenti. Io non provo odio verso nessuno, come potrei odiare un popolo in cui ho tanti amici? Anzi, come potrei odiare ed essere ancora cristiano? Non sono un angelo, sono un essere umano e ho paura. Sono un prete e ho pure studiato all’estero, quanto basta per essere considerato un occidentale e quindi una minaccia da eliminare. Ma intorno a me sento anche la presenza di tante persone disposte ad aiutarmi e ho trovato in questa gente una fede straordinaria, nonostante le terribili circostanze in cui viviamo. E sento vicini i miei amici europei, che mi dimostrano ogni giorno, via mail o attraverso Facebook, la loro partecipazione e il loro sostegno.

Storia raccolta da Valentina Ravizza e pubblicata su “E – IL MENSILE” del giugno 2011