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Frammenti (di Palestina)

(09/06/2015)

Nel 2003 uscì la traduzione italiana di un libro dal titolo ‘Politicidio’, scritto da un noto sociologo ebreo israeliano, Baruch Kimmerling. L’autore inseriva la spirale di violenza del conflitto israelo-palestinese della seconda Intifada nel contesto della politica di Sharon, il cui obiettivo primario era l’annientamento dell’Autorità Palestinese e lo smantellamento degli accordi di Oslo. In poche parole egli programmò la graduale e sistematica distruzione dei palestinesi come entità politica: insomma, un politicidio. L’idea dell’annientamento nacque in realtà molto prima, dai tempi del fondatore Ben Gurion secondo la ben collaudata tradizione coloniale (inglese e francese in primis), tramite l’uccisione mirata dei leader più carismatici e competenti e la realizzazione sul terreno di condizioni tali da impedire una soluzione alternativa al dominio israeliano.

Alcuni anni dopo, a seguito dei miei viaggi e dei miei incontri, scrissi a mia volta un pezzo che inizialmente intitolai ‘Popolicidio’ e che fu pubblicato sulla rivista Valori. In esso intendevo descrivere la distruzione della società civile palestinese tramite azioni esplicite e concertate ed altre forse non intenzionali ma altrettanto negative. In questo ultimo viaggio ho potuto riscontrare segnali che indicano in modo chiaro una progressione ulteriore di questo processo di frammentazione. Segnali che mi portano sempre più a pensare che anche nell’auspicato caso in cui una soluzione alternativa a quella voluta dal sionismo possa prendere carne, stato federale unico o due stati separati, l’autodeterminazione della popolazione palestinese non si possa mai compiutamente realizzare. Le cause di ciò sono varie e complesse, ma provo qua brevemente ad elencarle.

La causa primaria è senza dubbio l’occupazione Israeliana, come chiunque abbia uno sguardo sgombro da pregiudizi può facilmente capire anche da una analisi sommaria. Essa determina un sostanziale isolamento economico di Cisgiordania e Gaza, oltrepassabile di fatto solo pagando mediatori israeliani, da cui consegue una dipendenza pressoché totale dalla potenza occupante. Essa perpetua in barba al diritto internazionale (cosiddetto anche se non riconosciuto e praticato da tutti gli stati) il furto di terre e risorse fondamentali come acqua e gas naturale. Essa si fonda sulla presenza capillare, in buona parte della Cisgiordania e su tutto il perimetro di Gaza, della forza militare e sul controllo dello sviluppo della vita civile.

il muro e la primavera

La prima causa indiretta è adesso da identificare nella politica dell’Autorità Palestinese (AP), nata dopo i trattati di Oslo di metà anni ‘90. Essa svolge in pratica funzioni di polizia per la potenza occupante, in un tentativo di vedersi finalmente riconoscere le proprie buone intenzioni per una convivenza pacifica. E’ infatti sempre più comune sentire storie che descrivono arresti di attivisti nonviolenti e persone comuni, anche semplicemente sulla base di critiche su Facebook. Tutti questi sforzi non hanno però dato alcun frutto e si sono create forti divisioni interne da cui deriva la attuale mancanza di un governo unitario. Infine la corruzione è dilagante e vasti settori della società civile non si sentono rappresentati dall’AP.

In questo quadro, di per sé già complesso, la comunità internazionale rappresenta un’ulteriore causa secondaria di frammentazione. Essa, che pur ha chiesto prove di responsabilità all’AP in cambio di future concessioni, di fatto ha poi tradito le aspettative dell’AP stessa. Ultimamente a fronte di una forte attività del movimento internazionale BDS, alcuni stati e settori privati hanno sostanzialmente promosso il blocco di prodotti provenienti dalle colonie. Persino il ministro degli esteri dell’UE Mogherini ha minacciato di obbligare i commercianti a riportare sulle etichette la provenienza dei prodotti. Detto questo però il diritto internazionale tarda ad esser applicato concretamente. Addirittura Mogherini stessa chiede a Netanyahu di bloccare l’espansione delle colonie (tutte illegali secondo il diritto internazionale) ma non promuove alcuna richiesta su di un loro smantellamento.

Le innumerevoli ONG presenti nell’area da decenni, compresa l’agenzia ONU per i rifugiati UNRWA, sono esse stesse causa di frammentazione a prescindere dalle intenzioni con cui lavorano. Spesso, anche quando lo fanno con coscienza e professionalità, non possono modificare la situazione di fondo perché devono sottostare impotenti alle richieste della potenza occupante. Inoltre sovente esportano modelli culturali e di relazione non indigeni, che prima o poi vengono espulsi come corpi estranei. Sono innumerevoli infatti gli esempi di edifici andati in rovina o di attività abbandonate a sé stesse. Infine esse appoggiandosi a personale locale di fatto creano pletore di persone e famiglie dipendenti da loro per la propria sopravvivenza. E questo non aiuta a incentivare la autodeterminazione ed un rapporto maturo e responsabile.

Infine da non sottovalutare è  il fenomeno della violenza di genere, conseguenza della forte rinascita di una cultura patriarcale. La società palestinese non è in primis immune dalle tendenze presenti in tutte le società sviluppate, a prescindere da differenze di censo o di educazione scolastica. Essa poi vive ancor più il dramma delle donne e dei minori, acuita dalla frustrazione dei maschi adulti come è stato ben rappresentato nell’encomiabile film “Atash”. In esso il capo famiglia dichiara esplicitamente questa frustrazione rivolgendosi in un delirio notturno ad un soldato immaginario: “Tutti qua mi temono. Perché tu no?”

Non mancano però alcuni segnali di speranza. Spesso sono residui di quello che la Palestina è stata prima del periodo mandatario inglese e della nascita dello stato di Israele. Persino di poche decine di anni fa, quando le donne erano indipendenti al punto da girare liberamente in minigonna nelle città. Il tasso di educazione femminile è pur sempre il più alto rispetto ai paesi arabi circostanti. Esso è addirittura superiore a quello maschile. Io personalmente conosco una famiglia musulmana di Betlemme con 11 figlie laureate su un totale di 13. Anche a Jenin conosco una famiglia del campo profughi in cui nonostante un marito con handicap grave la madre fa studiare le figlie nonostante le difficoltà economiche. Esistono poi esempi di cooperative di donne come a Ramallah e nell’area di Hebron, fondamentali per la loro promozione sociale nonché per il mantenimento economico delle famiglie da loro dipendenti.

Ramallah, capitale di fatto al posto di Gerusalemme, è una bolla dove le offerte culturali aumentano giorno per giorno e dove i negozi ricordano a volte gli standard europei. Forme di attività teatrali continuano ad essere presenti persino a Jenin. Se il “Freedom Theatre” sembra perdere la propria identità sotto l’influenza internazionale, prosegue nell’ombra il lavoro di pezzi da esso fuorusciti. Di recente è sorta una formazione dal nome “Fragments” per l’appunto. Vorrei infine sottolineare la pervicacia con cui si continua a vivere il quotidiano nelle piccole comunità, con la atavica solidarietà che il modello individualista occidentale tenta di seppellire. Riporto soltanto l’esempio del centro medico di Betlemme “Al Sadaqa” (l’amicizia) nato dal nulla e che sta crescendo con l’intento di curare gratis vedove, orfani e indigenti in genere mentre i più ricchi pagano.

Non posso che augurare che questi frammenti formino le tessere da cui sorga un nuovo mosaico… non formato di pietre morte come negli scavi archeologici ma di pietre vive.

(FD)