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Assemblea a Betlemme

palumbo

Con la Campagna Ponti e non Muri delegati di Pax Christi Italia si recano ogni anno in Cisgiordania compiendo dei pellegrinaggi di giustizia, ascoltando testimoni e portando spesso aiuto concreto e solidale.

Dal 13 al 20 Maggio la nostra delegazione ha prima partecipato all’Assemblea Internazionale del Movimento tenutasi a Betlemme, con oltre 160 delegati provenienti da diverse nazioni, e successivamente ha compiuto un tour in questa martoriata terra, visitando i luoghi più significativi dell’occupazione. Alla fine dell’Assemblea i partecipanti mediante il loro comunicato hanno chiesto il riconoscimento di uno Stato palestinese e la fine degli insediamenti colonici. Il nostro gruppo di delegati italiani, ascoltando i testimoni ha potuto capire come questi due aspetti sono nevralgici nel complicato processo di pace.

Nel villaggio di Al Masara l’attivista palestinese Mahoud ci ha spiegato le modalità di lotta nonviolenta del proprio villaggio, attraverso il cui territorio dovrebbe passare il Muro che cinge la città di Betlemme, separando il villaggio da quest’ultima. Ogni venerdì una marcia silenziosa si muove verso il check point formato dai militari a guardia del tracciato. Incuranti delle minacce gli abitanti del villaggio si avvicinano ai soldati cercando un confronto con loro; confronto che li mostra per quello che sono, uomini e donne coinvolti in un conflitto in cui spesso neanche loro credono. Questa modalità consente ai soldati di ragionare sulla giusta causa delle loro scelte, e per gli abitanti del villaggio costituisce un recupero della loro dignità di uomini e donne in lotta per la propria terra. La scelta di adottare un sistema nonviolento di risoluzione del conflitto, produce una trasformazione dello stesso, dalla prevaricazione sul nemico o presun to tale si passa al confronto ed al dialogo, la creatività diventa sistema di lotta.

Lo stesso tipo di lotta viene applicata per il ripristino degli uliveti, che distrutti con i bulldozer israeliani vengono ripiantati, coltivati e potati dagli abitanti del villaggio con ostinazione e speranza.

Anche Rashid, l’attivista del Jordan Solidarity Moviment che incontriamo nella Valle del Giordano, sceglie la nonviolenza come forma di lotta. Nel villaggio di Alluja nei pressi della città di Gerico, attua la propria forma di resistenza ricostruendo le case che l’esercito israeliano demolisce. Tutto il villaggio è coinvolto nella produzione di mattoni che avviene impastando il fango e per la cui produzione è stata costruita addirittura una macchina in grado di produrne circa 500 al giorno. Ancora una volta il processo di lotta nonviolenta attua una trasformazione, degli oppressori che vedono vanificarsi i loro sforzi di prevaricazione e degli oppressi che vedono crescere come singoli e come comunità l’autostima e la forza interiore.  Proprio di forza interiore e speranza ci parla il Dr. Nidal, coraggioso medico di Betlemme che gestisce un poliambulatorio dove tutti, anche chi non è in grado di pagarsi le cure, vengono curati. Nidal ha conosciuto il carcere, sia lui che tutto il suo personale medico. Ha conosciuto la devastazione perpetrata dai militari israeliani che hanno fatto irruzione nel suo centro, ma nonostante tutto egli continua ogni giorno il suo lavoro, continua ogni giorno con l’aiuto dei suoi collaboratori ad assistere malati e famiglie. E’ proprio da questi testimoni che dobbiamo partire, Mahoud, Rashid, Nidal e tanti altri come loro rappresentano quella parte di Palestina che non si arrende, che non si piega alla disperazione ma al contrario ogni giorno lotta e spera per una terra in cui possano essere rispettati i diritti. Ma non è solo la società civile palestinese che si oppone all’occupazione, voci sempre più consistenti vengono da frange della società civile israeliana attraverso associazioni come Zochrot e Breaking The Silence. Abbiamo incontrato un esponente di quest’ultima formata da ex militari in congedo delle forze di sicurezza israeliane. Ci ha raccontato come molti di loro siano stati testimoni e perpetratori delle violenze commesse dall’esercito e come sempre più spesso i soldati sentano il bisogno di raccontare gli orrori commessi nella negazione dei più elementari diritti.

Diritti che vengono fortemente negati ai palestinesi della Cisgiordania che vivono a stretto contatto con gli insediamenti colonici. Le colonie, che rappresentano con molta probabilità l’ostacolo maggiore al processo di pace, sono di due tipi; insediamenti residenziali costruiti a ridosso delle città, oppure beni immobili confiscati ai palestinesi. Nel primo caso gli insediamenti occupano colline e vallate intorno alle città, come Betlemme e Ramallah, che sono sorte dalla confisca di terreni di proprietà palestinese. Con la costruzione del Muro i palestinesi hanno di fatto perso l’accesso a quelle terre. Nel secondo caso invece vi è la diretta confisca dei beni immobili all’interno delle città, come Hebron e Gerusalemme, in cui interi quartieri con case, strade, negozi diventano di proprietà israeliana. In questo caso la vicinanza delle parti in conflitto crea un importante problema di convivenza creando presupposto per i frequenti scontri.

Ma quali sono i motivi per cui la popolazione israeliana va a  vivere nelle colonie? Lo Stato di Israele effettua una forte politica di incentivazione per chi sceglie di viverci. Alla base vi è il costo ridotto delle case, ma anche i servizi erogati come acqua, luce, trasporti, scuole sono concessi spesso in maniera gratuita. Tale politica favorisce anche l’immigrazione di Ebrei provenienti da altri paesi,  molti anche dall’Europa dell’Est, stranieri quindi che si ritrovano ad avere diritti maggiori dei palestinesi proprietari di quelle terre. È un vero e proprio processo di pulizia etnica, la popolazione preesistente viene progressivamente messa in condizione di andare via rimuovendo loro e la loro cultura. Quel popolo, quel paese in qualche decennio non esisterà più creando una diaspora. Compito di noi europei non è di andare lì a dispensare consigli, ma è quello di ascoltare le loro esperienze ed istanze, attuando ogni forma di pressione verso la nostra società civile ed i nostro governi per far sentire la loro voce.

Lino Palumbo